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Marcello Mastroianni in 8½ © CINERIZ (Webphoto)
I sodalizi umani e professionali con Federico Fellini e Sophia Loren, quelli con Ettore Scola e Marco Ferreri, gli amori tormentati con Faye Dunaway e Catherine Deneuve, le tre candidature all’Oscar e la commedia all’italiana l’adorabile pigro e il latin lover, le leggendarie interpretazioni in La dolce vita e 8 e ½, Ieri, oggi, domani e Matrimonio all’italiana, Divorzio all’italiana e Una giornata particolare, Cronaca familiare e I compagni, La notte e Dramma della gelosia, la fama mondiale e “Marcello, come here!”. Tutto vero, tutto giusto, tutto bellissimo. Gli anniversari sono sempre delle ottime occasioni per festeggiare chi non c’è più.
Però sempre più spesso somigliano a quelle celebrazioni istituzionali in cui ci si limita ad apporre una bella corona ai piedi del monumento. Non bisogna dare nulla per scontato, è chiaro, il tempo non è galantuomo e la memoria va preservata anche ricordando ancora una volta la grandezza di quei classici. Ma un attore come Marcello Mastroianni, l’icona per sempre incastonata nell’immaginario di un Paese, merita qualcosa in più del consueto elenco degli irrinunciabili. E quindi, eccoci qua, a cent’anni dalla nascita (il 26 settembre 1924 a Fontana Liri, borgo ciociaro), con un viaggio in dieci film per riscoprire il Mastroianni meno noto.
Il momento più bello
Luciano Emmer (1957)
È Emmer a codificare il tipico Mastroianni degli anni Cinquanta: lo battezza pizzardone in Domenica d’agosto (doppiato da Alberto Sordi), lo ritrova tra i turisti di Parigi è sempre Parigi e come innamorato di una delle Ragazze di Piazza di Spagna (entrambi con la voce di Nino Manfredi), lo porta al parossismo nello straordinario Il bigamo in cui è un povero disgraziato vittima degli eventi. Nemmeno trentenne, l’attore si specializza in ruoli di umile popolano dal cuore d’oro. Ma, prima del posizionamento d’autore con Luchino Visconti (Le notti bianche) e in parallelo con la rivelazione malinconica con Mario Monicelli (Padri e figli), è lo stesso Emmer ad accompagnarlo in un’altra fase. In quest’ultimo squarcio di neorealismo rosa, è un medico del San Camillo: il tema è la maternità, il titolo si riferisce al parto senza dolore, il contesto sospeso tra dopoguerra e boom, il focus sul ruolo della donna e sull’istituto della famiglia. Niente male.
Vita privata
Louis Malle (1962)
Un gioiello nascosto tra le pieghe di tre carriere smisurate: quella del regista, reduce da un clamoroso trittico d’esordio aperto con Ascensore per il patibolo; quella della protagonista, Brigitte Bardot, di cui questo film è parafrasi indiretta e interpretazione sublimata; e quella di Mastroianni, che da partner della star gioca di sottrazione lavorando sulla stilizzazione minimalista. A leggerne l’anno di realizzazione, un lavoro sconvolgente: una specie di documentario sul tracollo di una giovane attrice data in pasto al pubblico, che l’adora sullo schermo e la disprezza per il privato. Modernissimo nel pensiero oltre gli schemi, sfrontato per la teoria di temi in campo, audace nella forma frantumata e impressionista, con un finale che mozza il fiato e spezza il cuore. Se BB non fa niente per nascondersi, MM si serve dello status di amante latino (siamo negli anni dell’apogeo dell’italian style) per svelarne malcelate insicurezze e piccole vanaglorie.
Spara forte, più forte... non capisco!
Eduardo De Filippo (1966)
Un oggetto stranissimo e dimenticato. Quasi sempre impegnato in prima persona nelle trasposizioni dei suoi testi, il sessantaseienne Eduardo torna alla regia dopo sette anni con l’adattamento di Le voci di dentro, scegliendo come protagonista colui che aveva appena reinterpretato in chiave glamour il Mimì di Filumena Marturano (ovvero Matrimonio all’italiana). Sulla carta, un’operazione in linea con il film di De Sica: dare all’opera una veste più sgargiante (c’è anche Raquel Welch), trasformando la riflessione su realtà e sogno in un rutilante gioco pirotecnico in cui il protagonista, apparecchiatore di feste popolari, diventa anche scultore pop. Nei fatti, un pasticcio scriteriato di sottomarca felliniana e un disastro commerciale (budget da due milioni di dollari): come può lasciarci indifferenti? Comunque, grande affare per Mastroianni, al primo film previsto da un contratto con Joe E. Levine: completamente fuori parte ma cachet da oltre mezzo milione.
Amanti
Vittorio De Sica (1968)
Prolifico e girovago, l’italiano più esportato e ambito della sua generazione non poteva che essere il protagonista di una love story per far sognare il pubblico di tutto il mondo. Alla regia, un maestro di statura internazionale, Tonino Guerra, Cesare Zavattini ed Ennio De Concini tra gli sceneggiatori (dalla commedia di Brunello Rondi), Ella Fitzgerald ingaggiata per due canzoni su musiche di Manuel De Sica, il successo di Un uomo, una donna come modello: cosa poteva andare storto? Tutto. Ingenerosamente considerato tra i peggiori film della storia, sbeffeggiato dalla critica e respinto dal pubblico, Eppure sul set scoppia l’amore tra il divo e Faye Dunaway, lungo due anni intensi e tormentati (lei vuole sposarsi, lui non intende divorziare; lei lo lascia, lui si dispera): non vediamolo solo quale sontuoso lacrima movie un po’ kitsch ma come se fosse il documentario involontario che testimonia la nascita di una storia d’amore.
Leone l’ultimo
John Boorman (1970)
La carriera di Mastroianni è zeppa di collaborazioni inaspettate e, con l’avanzare dell’età, sempre più delocalizzata in un cinema senza frontiere. Il divo sa di essere portatore sano di fellinismo, che qui detona in un’allegoria in cui il senso della finzione diventa così perturbante da farsi paradigma di uno zeitgeist: è solo ripensandola sul set, quindi sovvertendola, che si può ragionare sulla realtà. Una strada diventa lo spazio allegorico in cui esplodono le disuguaglianze sociali tra i ceti dominanti e gli emarginati in rivolta, tra fughe lisergiche alla Uomo da marciapiede e suggestioni caotiche alla Hollywood Party. E Mastroianni non fellineggia ma offre un corpo decadente allo straniamento onirico, ergendosi maestoso in questo strampalato apologo sulla rivoluzione impossibile, l’irriducibilità del potere e dei suoi parassiti subalterni.
Mordi e fuggi
Dino Risi (1973)
La longevità professionale di Mastroianni è dovuta anche alla sua versatilità: non ha mai avuto paura di sfidare le convenzioni e calarsi nei panni di personaggi discutibili. E i suoi incontri con Risi sono sempre gustosi: tra il sacerdote in love con finale perfido de La moglie del prete e il folle d’amore nello splendido e straziante Fantasma d’amore, c’è questo industriale con giovane amante e senza scrupoli che viene sequestrato da un gruppo di terroristi anarco-comunisti. La commedia all’italiana al crocevia degli anni di piombo (a fine decennio Risi aggiorna il tema con il più nero Caro papà): un po’ Cani arrabbiati e un po’ Sugarland Express, la stagione dei grandi rapimenti e della lotta armata raccontata in diretta con acume e cinismo. Accanto a Oliver Reed, reduce dai trionfi con Ken Russell, Mastroianni si mangia la scena: meschino e volgare, untuoso e manipolatorio, cialtrone e pericoloso.
L’idolo della città
Yves Robert (1973)
Come si fa rendere credibile l’idea che quello dell’attore possa essere un lavoro logorante? Con il dinamismo: correre da un set all’altro, saltare da uno studio di doppiaggio a un cabaret. Con il contesto: dare conto dei casini personali (ex moglie, nuova compagna, amanti occasionali, figli che cercano attenzioni). Con il carattere: in un ruolo pensato per Yves Montand (che lo rifiutò perché riteneva che nessuno l’avrebbe creduto in un personaggio che si barcamena tra lavoretti di second’ordine), Mastroianni è perfetto. Nel prestare il suo corpo divistico a una delle più acide riflessioni sul mestiere, sa restituire l’entusiasmo e la fatica, l’attrazione per l’andare in scena per diventare qualcun altro e la necessità di mettere insieme il pranzo con la cena, l’infantilismo congenito a chi gioca come professione (MM amava dire che jouer e play sono termini più precisi di recitare) e la devastante malinconia dello stare al mondo.
Mogliamante
Marco Vicario (1977)
Avrebbe dovuto dirigerlo Marco Bellocchio (l’appuntamento con Mastroianni è rimandato al 1984, anno del pirandelliano Enrico IV), finisce nelle mani di Marco Vicario, un regista e produttore oggi dimenticato ma capace di successi stellari (Sette uomini d’oro) e così intelligente da non svendere i diritti dei suoi film (pochi ma buoni) alle televisioni. Tant’è che oggi di quelle hit resta soprattutto l’eco, così come di questa curiosità veneta d’inizio Novecento scritta da Rodolfo Sonego: Mastroianni è un ricco commerciante di vini con moglie isterica (Laura Antonelli), assiste involontariamente a un omicidio e si convince di essere ricercato, quindi si nasconde in un granaio, “liberando” la consorte che si dà così agli affari di famiglia, finché lei scopre che lui la spia. Voyeurismo e libertinaggio, politica e desiderio: i valori di produzione sono d’alta scuola anche se la farsa è dietro l’angolo, ma il divo è sornione e squisito nell’incarnare la metamorfosi di un uomo ridicolo.
Storia di Piera
Marco Ferreri (1983)
Sono cinque gli incontri con Ferreri, compreso il maledetto Break Up (o L’uomo dei cinque palloni), nato come film autonomo, poi sforbiciato da Carlo Ponti e ridotto a episodio di Oggi, domani, dopodomani, infine salvato dall’oblio nel 2016. L’ultimo è nell’adattamento del libro-intervista in cui Piera Degli Esposti si confida con Dacia Maraini. Che trasforma la confessione per voce sola in un passo a due femminile dominato dalla grande Hanna Schygulla come voluttuosa e travolgente madre e da Isabelle Huppert nel ruolo della figlia. Ma Mastroianni è epifanico: è il padre di Piera, una marionetta nelle mani delle donne e da loro completamente schiacciato, prima assente per “scelta” e poi per cause di forza maggiore, un uomo crepuscolare e struggente perché inadeguato, consapevole di non essere all’altezza del dovere patriarcale imposto da una società su misura dei maschi. Pochi come lui si sono incaricati di dare vita a questi uomini a pezzi.
Di questo non si parla
María Luisa Bemberg (1993)
L’ultima parte della carriera di Mastroianni è il sintomo della crisi del cinema italiano: a parte qualche occasione (Che ora è, Stanno tutti bene, Verso sera, Sostiene Pereira), nessuno sa bene come usare il più riconosciuto dei nostri divi. Che infatti lavora ovunque, dagli Stati Uniti (Cin cin con Julie Andrews, La vedova americana con Shirley MacLaine) alla Francia (Il ladro di ragazzi, Uno, due, tre, stella!) e con maestri di ieri e oggi (Theo Angelopoulos, Robert Altman, Agnès Varda, Raúl Ruiz, Manoel de Oliveira per il testamentario Viaggio all’inizio del mondo), Finisce anche in Argentina, dove la femminista Bemberg lo esalta in una commedia fiabesca e crepuscolare in cui è un anziano scapolo che sposa una nana mai accettata dalla madre. Incontro tra le atmosfere cechoviane (come Oci ciornie, tra le vette dell’attore) e il realismo magico sudamericano, un compendio della recitazione dolce e carismatica, misteriosa e limpida, del nostro divo più cosmopolita.