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Marco Bellocchio
“Quella bestemmia (L’ora di religione, NDR) più che un’imprecazione sembra un’invocazione travestita da imprecazione. Al posto del Cristo che muore c’è questo malato che a suo modo prega e verso il quale Castellitto mostra una forte pietas” Padre Virgilio Fantuzzi sj
Lo scomparso gesuita Virgilio Fantuzzi vi definiva l’agnostico Marco “un penitente”, e proprio in quel magnifico Marx può aspettare dove Bellocchio, facendo un film sulla propria famiglia e segnatamente “Camillo, l’angelo”, il gemello suicida il 27 dicembre del 1968, interroga il (non) dolore dei congiunti, l’elaborazione del lutto subordinata alla volontà di celare la verità alla madre, il suo cinema stesso quale cechoviana “fantasia che nasce dalla vita”.
Nel successivo Rapito Bellocchio ricorda che nel 1948 i comunisti erano scomunicati, “e per noi bambini era una cosa paventosa. Oggi papa Francesco (che Marco invita a vedere il film, NDR) mette in discussione l’apparato, sugli omosessuali, i divorziati cerca di aprirsi al mondo, altrimenti la Chiesa non ha futuro”. La presa di posizione, l’endorsement qui e ora, s’accompagna nell’abbrivio filmico alla “conversione forzata e l’estrema violenza inflitta agli ebrei”, con il maestro che precisa: “Mi stava a cuore il discorso sulla mente di quel bambino (Edgardo Mortara, NdR), il farne un cattolico a tutti i costi”.
Avvertenze, distinguo, financo orizzonte morale mai oppositivo, sempre dialogico, che trova sullo schermo sintesi icastica, e pure il tavolo di studio dei teologi alla voce kenosis, la scena di Edgardo che schioda il Cristo in croce “come se provasse a mettere d’accordo le due fazioni, a pacificare i propri genitori col Papa”.
Il Papa, un altro: Paolo VI, è anche nella serie che Marco gira tra Marx può aspettare e Rapito: Esterno notte. All’Aldo Moro di Fabrizio Gifuni mette in bocca questione umana, troppo umana, e dunque cristiana: “Che cosa c’è di folle nel non voler morire?”. Il pontefice è qui, diremmo con malizia, uno e bino: s’appella famosamente ai sequestratori, “Io scrivo a voi uomini delle Brigate Rosse, restituite alla libertà l’onorevole Aldo Moro”; nega prima la benedizione all’apertura ai comunisti dello statista DC, “Penso alla coscienza dei cattolici contrari a divorzio e aborto, penso a un partito che si definisce cristiano e invece si allea con chi ha convinzioni diverse su temi fondamentali”.
Per Marco Bellocchio Aldo Moro porta la croce, ma attenzione la liberazione promessa, ovvero insita, nella croce stessa non evoca una libertà di vita, direbbe Jonathan Franzen: “Se sono libero di scegliere, allora come devo vivere?”, bensì una libertà (meta)cinematografica: “Se sono libero di scegliere – chioserebbe il regista – allora come devo guardare?”. Già, è espressione, se non astrazione, cinematografica: “Tra i tanti film che ho fatto, – nota il regista su Rapito – quelli che mi piacciono di più sono stati scatti di libertà, dei momenti in cui mi ribellavo a un certo conformismo e non accettavo le imposizioni che qualcuno voleva darmi”. (a Davide Milani)
È, questo sguardo, artisticamente conforme al dettato paolino “nel mondo, non del mondo” ma non è performativo, bensì contemplativo: “Se venisse qualcuno, se venisse a svelarmi come si fa, che questo amare il prossimo mio come se stesso è possibile, questo per me sarebbe una vera rivoluzione” (ad Andrea Monda).
Ecco, rispetto alla rivoluzione cristica e cristiana, il cinema – e la vita – di Bellocchio è come se si muovesse, mutuando da Bernardo Bertolucci, prima della rivoluzione (1964): “Bellocchio – ancora Fantuzzi su L’ora di religione, NdR – descrive la condizione di un uomo che cerca un po’ di tranquillità, s’è creato un angolo di laicità e si sente assalito dal mondo circostante che assume caratteri religiosi”.
È – anche – Bellocchio quest’uomo, questa non o addirittura anti-figura Christi? È il suo cinema creazione ex novo di laicità e riparo, financo buen retiro, dall’assalto della religione? All’opposto, pare che il suo cinema raccorci, comunque, voglia accorciare la giusta distanza che nella vita – sì, è la nostra un’aporia – Bellocchio ha messo tra sé e la religione: “Ho avuto infatti, come tanti, un’educazione cattolica, poi però la mia vita, prima di tutto famigliare, con una serie di problematiche profonde, mi ha messo sulla difensiva, per cui è prevalso un principio di sopravvivenza. Ti difendi, ti arrocchi, ti chiudi. Non hai risposte e perdi la fede”. (ad Andrea Monda, idem)
Ma è una perdita mitigata, se non s-confessata tout court, dal cinema, alla cui occasionale trascendenza Bellocchio non si sottrae, quantomeno nel gradimento estetico dinnanzi all’autorialità che la contempla: Ordet di Dreyer e, inverando il premio odierno della Fondazione Ente dello Spettacolo, Robert Bresson e Diario di un curato di campagna: “Bresson ha un rapporto diretto con la trascendenza, sia pure nella sofferenza, quasi nell’agonia (la sofferenza di Cristo sul monte degli ulivi e poi sulla croce, l’agonia) ho in mente oltre al Curato anche quel capolavoro assoluto che è Un condannato a morte è fuggito, che è un discorso sulla resistenza, sul non arrendersi mai, non disperare mai”. (ad Andrea Monda, idem)
È il cinema di Bellocchio invece della disperazione? O forse, e per noi meglio, nella disperazione? “Cara Angela, l’angoscia ha raggiunto un punto tale che non posso più vivere…”, premette Camillo, l’angelo. E di disperazione, letteralmente “sofferenza incontrollabile e inspiegabile”, parla anche per Edgardo: “Il fratello lo invita a tornare a casa, ma lui decide di rimanere con il papa, fino alla scena finale, piena di disperazione, in cui non può fare a meno di convertire la madre e riceverà un rifiuto terribile. Nel libro di Messori, è contenuta una sua piccola autobiografia in cui Mortara parla di strane e misteriose malattie che lo tengono a letto a lungo: mi interessava in lui questa sofferenza incontrollabile e inspiegabile". (a Davide Milani, idem)
Un passo indietro, ancora la violenza, ovvero l’apprendistato religioso: “La violenza subita, quest'obbligo (in Rapito, NdR), questa imposizione mi ha ricordato l’educazione religiosa che ho ricevuto quando avevo la sua età. Si basava sulla paura, su una forma di intimidazione diretta. Il catechismo che ho imparato era su forme astratte di teologia, ma la violenza consisteva nell'incutere la paura nel peccato, nel morire in un peccato mortale che avrebbe significato andare all'inferno per l'eternità. Questa violenza mi ha messo in contatto con l'esperienza di Edgardo". (a Davide Milani, idem)
Eppure, di anno in anno, di film in film, di pugno in tasca (“In tutto quello che faccio cerco di esercitare la tolleranza, la rabbia della giovinezza si è molto mitigata”, ad Andrea Monda, NdR), è come se l’osservazione puntuale e la condanna puntuta di quella costrizione religiosa lasciassero, lascino spazio e tempo a una conversione umana, a un intendimento, credenti e agnostici, della comune alterità, che con manifesto ossimoro può circoscrivere il senso di Bellocchio per la fede: “Sono un non credente, non un ateo, ma l’educazione che ho e l’avrò fino alla morte, è cattolica. Ha, però, anche degli aspetti molto positivi: la grazia, la gentilezza, la discrezione, la sincerità nascono da lì”. (a Davide Milani, idem)
Al buñueliano “Grazie a Dio sono ateo”, Marco pare opporre un “Vivaddio sono agnostico”, in cui l’agnosticismo è interrogazione, aanziché alla Grazia, all’umano, interpellanza alla relazione e, persino, catalisi artistica e promessa di bellezza: "Se sono amico di qualcuno di cui ammiro l'intelligenza e il coraggio ed è un credente fervente, la sua fede non mi penetra, sarei falso se dessi adito a un dubbio. Guardo, però, all'assurdità della fede con estrema attenzione, è una strada comune verso la bellezza. Una rappresentazione illogica, irrazionale, che accomuna credenti e non credenti. Michelangelo, Raffaello, Tiziano sono stati un veicolo di fede per il popolo di più di tanti libri di teologi: hanno fatto passare Dio attraverso la bellezza”.
Folgorato ma non convertito sulla via di Damasco (“Ci sono stati tanti grandi convertiti, è un fatto che io rispetto ma che rimane per me sempre qualcosa che non capisco”, ad Andrea Monda, NdR), Bellocchio si prepara all’altrui riconoscimento della comune alterità, sicché “Virgilio (Fantuzzi, NdR) vedeva il mio cinema come una confessione ininterrotta e anche come una Via Crucis”. (ad Andrea Monda, idem)
La Via Crucis di Moro, di Edgardo, di Camillo, di Marco stesso appunto, che da agnostico recalcitrante ha le parole per dire di questa comune alterità: absit iniuria verbis, la bestemmia, quella bestemmia. “Con L'ora di religione è cambiato lo sguardo dei cattolici sinceri verso il mio cinema. Lì c’è una bestemmia, ma molti di voi capirono che esprimeva una disperazione, un dolore: non era un insulto, ma una preghiera. Da lì ho visto un'apertura". (a Davide Milani, idem)