A trentadue anni, Tommaso Santambrogio è già tra i nostri autori preferiti: non a caso è presidente della giuria interreligiosa alla XXVIII edizione del Tertio Millennio Film Fest. Abbiamo amato Gli oceani sono i veri continenti, il suo primo lungometraggio che dilata e approfondisce il corto omonimo con cui ha esordito nel 2019, e l’abbiamo premiato con il Cinematografo Award come miglior opera prima: “Una lettera d’amore a Cuba – si leggeva nella motivazione – piena di rimpianto e di cinema, di fotografia e di disperazione della materia: conferma la vitalità degli expat italiani e suggerisce che il futuro del nostro cinema potrebbe forse iniziare altrove”.

Già, perché – a parte il secondo corto, L’ultimo chiude la porta (2021), camera fissa sul dissing amoroso su un ballatoio milanese, il più “classico” e “teorico” dei suoi lavori, per certi verso il più inaspettato – il cammino di Santambrogio non è nello Stato che gli ha dato i natali ma nella patria elettiva dell’isola caraibica, sfondo anzi protagonista di quei primigeni venti minuti in bianco e nero. D’altronde l’avvenire è dei registi cosmopoliti, di coloro che non si chiudono nell’alcova borghese o nell’enclave più comoda ma, anzi, scelgono di proiettarsi su un orizzonte globale.

Un approccio già evidente in quel primo corto: venti minuti in bianco e nero per raccontare la fine di una storia, sullo sfondo di una Cuba decadente se non già decaduta. La crisi è ovunque ma due trentenni si amano, condividono il quotidiano degli affetti e il lessico dei ricordi, ma le cose svaniscono come lacrime nella pioggia, la nostalgia torna alla sua etimologia (il dolore del ritorno) e si configura nelle sue conseguenze (convivere con il rimpianto).

Anziché servirsi di una vicenda personale per tracciare un affresco collettivo, Santambrogio fa qualcosa di più raffinato, evitando le prevedibili assonanze tra un mondo in disfacimento e una relazione al capolinea: è piuttosto un discorso che legge il paesaggio nel privato, romantico e al contempo antropologico, che affronta il tema della perdita tra le rovine di una terra apparentemente desolata.

Taxibol
Taxibol

Taxibol

Taxibol e il magistero di Lav Diaz

È l’avvio di un progetto che rivendica una fiducia nel cinema e nelle sue immagini, un percorso estetico ed etico che tiene conto della lezione dei maestri, in primis Lav Diaz, che Santambrogio conosce da studente residente alla Scuola di Cinema di Cuba, dove il regista filippino è impegnato come docente. Tra i due scatta qualcosa e la scintilla è nell’inusuale richiesta che il giovane avanza al veterano: non supervisionare un lavoro ma parteciparvi.

Da qui nasce il sorprendente mediometraggio Taxibol (2023, disponibile su MUBI, che a Santambrogio dedica un focus): all’inizio sembra un documentario su Diaz che, seduto in auto accanto al tassista Gustavo Flecha, percorre le strade di Cuba discutendo di politica, immigrazione, condizioni sociali e amore (Diaz parla in inglese, Gustavo gli risponde in spagnolo: sembra un dettaglio ma è un elemento sostanziale che certifica l’assenza di barriere). Poi, dopo i titoli di testa, il film diventa altro e si rivela: Diaz in realtà sta cercando un misterioso generale scappato dalle Filippine al termine della dittatura di Marcos, Juan Mijares Cruz. “Gli sparerò in testa – confessa il regista al tassista – poi gli spaccherò la testa e infine mangerò il suo cervello. Questo è il rituale che seguirò: per il popolo filippino, per la mia gente”.

Il rapporto tra i due è il senso stesso di quel cinema che Santambrogio sceglie di seguire sulle orme di Diaz: un patto di fiducia tra chi mette in scena e chi guarda, un asse personale edificato su una missione comune, la restituzione della verità attraverso gli strumenti della finzione. Dal dialogo in movimento che simboleggia la necessità della rivoluzione, Taxibol passa al monologo senza voce che dà consistenza alla conservazione. E si scopre così onirico e terrificante spaccato della vita – o quel che resta – di Cruz (lo interpreta Mario Limonta), chiuso in una grande casa (è l’ex dimora di Ernest Hemingway a La Havana) piena di segni di morte, in primis una testa di cervo a dominare la camera da letto. Il racconto di questo limbo è affidato a uno sguardo contemplativo, in cui la bellezza figurativa non è illustrativa o decorativa ma testimonianza di uno stile messo alla prova delle forme e dei formati.

Gli oceani sono i veri continenti
Gli oceani sono i veri continenti

Gli oceani sono i veri continenti

Gli oceani sono i veri continenti, da corto a lungo

Un film che conferma il limpido e profondo talento di Santambrogio, consacrato da Gli oceani sono i veri continenti, espressione di quel cinema contemplativo oggi a volte fin troppo standardizzato e che il nostro sa restituire senza compiacimenti né cliché, tra campi lunghi tempi dilatati, piani fissi e narrazione rarefatta. Del corto d’origine il regista mantiene la coppia e aggiunge altre linee: due bambini di nove anni che vanno a scuola e sognano di emigrare assieme negli Stati Uniti per diventare giocatori di baseball professionisti; e un’anziana signora indigente che vendendo coni di noccioline e trascorre le giornate ascoltando la radio e rileggendo vecchie lettere. Le strade diventano fiumi, i tetti si sfondano, le lettere d’amore si bagnano, il sole acceca le terre aride, le marionette per le coreografie di un amore, le fotografie per ricordare chi siamo e chi potremmo essere.

Gli unici movimenti di macchina rappresentano le promesse non mantenute (dalla Storia e dalle storie) e le corrispondenze tra il paesaggio interiore e quello esterno collimano in una sala cinematografica vuota (un “cimitero delle immagini”), nei residui del sogno cubano, nella vana possibilità di superare la linea d’ombra senza ferirsi. Un percorso che raccoglie idealmente l’eredità di Nicolás Guillén Landrián, il primo regista nero di Cuba, accostabile alle sperimentazioni di Chris Marker e inviso al castrismo (i suoi documentari furono censurati, lui fu internato, andò in esilio a Miami, morì nel 2003): nell’opera di Santambrogio ritroviamo un’idea di cinema “che non sia uguale a tutto il resto, che non si accordi con tutto il resto, dove l’immagine è più importante della parola stessa, con un linguaggio audace e interessante per il pubblico”.