Quando la compagnia australiana Black Lung debuttò a teatro, nel 2006, con lo spettacolo Avast, la stampa non esitò a definirlo “follemente frenetico, abilmente metateatrale, una combinazione mozzafiato di precisione e caos”. Era il battesimo di una delle più celebrate e influenti esperienze teatrali del decennio, formata da due ragazzi poco più che ventenni: Thomas Henning, che da quel momento in poi non solo ha continuato a calcare i palcoscenici ma si è occupato anche di videoarte sperimentale; e Thomas M. Wright, che dal teatro è poi passato al cinema, prima come attore e poi dietro la macchina da presa.

Wright è un artista curioso: tra il 2008 e il 2013 si lanciò in Doku Rai, una complessa produzione che, attraverso la rappresentazione di inediti rituali tradizionali, offriva un racconto metaforico sul colonialismo, sulla religione e sulla violenza, unendo inserti video e performance musicali, con la collaborazione di alcuni ex combattenti della resistenza.

È qualcosa che ci dice molto di questo artista del tutto fuori dalla norma, nato a Melbourne nel 1983 (ha appena compiuto 41 anni) e che, mentre ribaltava le convenzioni del teatro borghese, si faceva le ossa recitando in alcuni film di Disney Channel. Quello dell’attore è un mestiere che vive ai margini, senza mai ottenere un ruolo da protagonista, tant’è che, a cavallo tra i venti e i trent’anni, lo troviamo comprimario in produzioni locali ( Van Diemen’s Land, Balibo, Torn) e lontane dall’Australia (il kolossal Everest, L’uomo dal cuore di ferro).

Ma è la serialità a garantirgli un posto di riguardo e l’attenzione del pubblico e della critica: Jane Campion vede in lui un novello Daniel Day Lewis, così selvaggio e al contempo malinconico, e lo sceglie per interpretare il tormentato ex carcerato Johnno in Top of the Lake (2013). È fatta: la televisione lo cerca ancora (tra il 2014 e il 2017 partecipa alle serie The Bridge e Outsider), il cinema si accorge di lui e, nel 2017, ha una bella occasione in Sweet Country di Warwick Thornton, premiato alla Mostra di Venezia.

The Stranger
The Stranger

The Stranger

(Netflix)

pazzo per stanley kubrick

Ma è l’incontro con Campion a segnare per sempre Wright: “Nei suoi primi film – ha raccontato in un’intervista del 2022 – c’era una lente attraverso la quale non avevo mai visto prima. Il suo cinema scorreva, fioriva e vibrava di vita. Non tenevo in considerazione l’idea di scrivere o dirigere film, solo quando ho lavorato con lei, nel periodo in cui è nato mio figlio, ho capito davvero che desideravo fare il regista”.

Da adolescente, Wright va pazzo per Stanley Kubrick, quasi un “secondo padre”: “Quando è morto avevo diciotto anni ed è stato come perdere un membro della famiglia. Era un rapporto personale e, sebbene fossi semplicemente uno straniero proveniente da un altro paese, ho sofferto a lungo per la sua perdita”. E ama Velluto blu di David Lynch, un film che considera tradizionale ma personale, scritto usando “il linguaggio dei sogni”, carico di simboli e di cinefilia.

Alla regia del primo lungometraggio ci arriva nel 2019: scrive, dirige e produce Acute Misfortune, che ricostruisce la vita travagliata dell’acclamato artista australiano Adam Cullen attraverso il rapporto con il suo biografo Erik Jensen. Un esordio indipendente che impressiona e sorprende: considerato uno dei migliori film australiani del decennio, esplora il cuore di tenebra di un provocatore, sondando gli abissi di una psicologia tormentata (disturbo bipolare, dipendenze, violenze), e si allontana dal cliché dell’enfant terribile per restituire il ritratto autentico di un genio (Daniel Henshall, che interpreta Cullen, ha perso più di venti chili, indossato i veri abiti dell’artista, usato i suoi strumenti di lavoro).

Joel Edgerton e Sean Harris in The Stranger
Joel Edgerton e Sean Harris in The Stranger

Joel Edgerton e Sean Harris in The Stranger

(Netflix)

the stranger: prendere di petto il male

Nel 2022, Wright presenta a Cannes, in Un Certain Regard, la sua opera seconda, The Stranger. La via morale – e romanzesca – al true crime: all’origine, infatti, ci sono il caso di Daniel Morcombe, un tredicenne rapito, stuprato, ucciso e fatto a pezzi da Brett Peter Cowan nel 2003, e le indagini che, nel 2014, portarono all’individuazione del colpevole (la famiglia della vittima non ha approvato il progetto). Wright trasfigura la vicenda in un thriller cupo con improvvisi tagli di luce (fotografia di Sam Chiplin), pervaso da un sound design immersivo e inquietante (il merito va a Andy Wright, Oscar per La battaglia di Hacksaw Ridge), mettendo al centro la relazione tra il principale sospettato dell’omicidio (Sean Harris) e un poliziotto sotto copertura che si finge suo amico (Joel Edgerton, forse all’apice della carriera).

Il tema della verità è cruciale, il concetto di “messinscena” recupera la formazione teatrale dell’autore (fondamentali i contraccolpi del lavoro che logora), la narrazione è tentacolare, il montaggio funziona per ellissi. Presidiando il noir e servendosi delle marche tipiche del racconto poliziesco (evitiamo di usare “crime”, un termine anodino che indica un mondo senza darci le coordinate emotive), l’intellettuale Wright prende di petto il male senza dargli la visibilità tangibile ma distillandolo nel trauma rimosso del carnefice, nel peso insostenibile dell’orrore, nello sguardo di un mostro che rappresenta quella “società degli estranei” a cui allude il titolo.

È un film sulla violenza in cui la violenza è già avvenuta: “La decisione di non ritrarre la violenza e la vittima – ha spiegato il regista – è radicata nel profondo: si affrontano questioni più ampie che riguardano la capacità umana della violenza, il bisogno di ordine, coesione ed empatia, la necessità di dare un significato anche quando la violenza minaccia di svuotare di senso ogni cosa”. Wright, da vero maestro, alterna le registrazioni forensi e le prospettive psicologiche, l’indagine fattuale e quella interiore, ma è nella regia che si rivela, nel controllare una realtà che sa di non poter modificare: negli esterni si allontana per osservare i corpi incapsulati in un ipotetico diorama, negli interni si restringe sui volti, sugli oggetti, sui dettagli. Candidato a 11 AACTA (gli Oscar d’Oceania), ne ha vinti 2 per sceneggiatura e Harris.