È un ragazzo di quattordici anni, Lukas Dhont, quando comincia a scrivere sceneggiature. È già un cinefilo: gli piace l’horror, è attratto da zombie e creature misteriose, sogna di girare un grande film spettacolare, magari un kolossal. È un insegnante di cinema a fargli capire il motivo: il giovane Lukas vede nel cinema la possibilità di fuggire dalla realtà, l’occasione per non confrontarsi con se stesso e con la propria identità. Si trattava – è lo stesso Dhont a spiegarlo – di “scomparire in altri mondi”. Da lì in poi si apre a un percorso di consapevolezza, emancipazione, realizzazione: anziché scappare dalla vita reale attraverso il cinema, decide di usare il cinema per riappropriarsi della vita.

Belga, nato a Gand il 14 maggio 1991, Dhont debutta alla regia a ventuno anni, in bilico tra finzione e realtà, con il cortometraggio Corps perdu, fondato sull’incontro casuale tra un giovane ballerino e uno sconosciuto in fuga, e, nello stesso anno, realizza De Lucht in mijn Keel, che coglie lo spaesamento domestico e familiare di una dodicenne. Due anni dopo, si laurea in Arti audiovisive presso la Royal Academy of Fine Arts della sua città natale con il corto di diploma L’infini, che mette al centro l’attrazione e la repulsione tra un uomo e un bambino. È un film breve e potente, esito di un lavoro di ricerca (in fondo a cosa servono le scuole?) che intreccia narrazione e coreografia, a testimoniare una visione complessa più che multidisciplinare: come i due precedenti lavori, rivela un talento fuori dall’ordinario, non solo l’attenzione a una serie di temi cari ma soprattutto un approccio empatico quanto meticoloso a quanto accade – e non accade, il che è altrettanto interessante – nell’età acerba (si trovano tutti online).

girl: dalla realtà alla finzione

Lo studio tra dimensione plastica e movimento interiore, tensione fisica e paesaggio emotivo, è fondamentale nella costruzione dell’identità d’autore di Dhont, un osservatore che desidera incanalare la riflessione nella narrazione: la chiave è nel naturalismo, l’unione tra il metodo documentaristico e la scelta della fiction, nella restituzione di un cinema impressionista e a tratti mistico che parte dalla realtà per approdare alla finzione, modellando i corpi e le storie con la luce e il colore. L’avventura di questo adolescente alla conquista della propria identità sconfina e si sovrappone a quella di un regista in formazione, il cui sguardo si esprime al meglio nei due lungometraggi che ha diretto a oggi, il primo all’età di ventisette anni e il secondo a trenta: più che enfant prodige, maestro nascente in purezza.

Girl
Girl

Girl

Il suo esordio, Girl (2018), ispirato a una storia vera e presentato a Cannes nella sezione Un certain regard, viene subito acclamato dalla critica e vince la Camèra d’or, il riconoscimento destinato alle opere prime. È la storia della quindicenne Lara, che, insieme al padre e al fratellino, si è trasferita in un’altra città per realizzare un sogno: frequentare una prestigiosa scuola di balletto. Il problema è che Lara è nata in un corpo maschile che non le appartiene. Se la danza e l’adolescenza, due territori dove plasmare e formare identità, sono – l’abbiamo visto – tematiche che affascinano Dhont sin dai corti (e anche altrove: realizza performance con il coreografo Jan Martens), sono l’autenticità e l’empatia a veicolare un dialogo con i personaggi e con il pubblico.

Come scrive Édouard Louis, intellettuale francese quasi coetaneo di Dhont e in un certo senso a lui affine (folgoranti i suoi libri Il caso Eddy Bellegueule e Storia della violenza), scrive: “Come mi sento in questa giovane età dopo aver vissuto così tante vite?”. Ed è un po’ una parafrasi per capire i film del regista. Un’avventura fisica, emotiva e psicologica trasmessa in modo sensazionale da Victor Polster, protagonista di un coming of age sensibile e misurato, capace di configurare la storia di un corpo messo alla prova (l’assunzione di ormoni, la decisione di sottoporsi a un intervento, il nastro adesivo applicato su un torace scarnificato, lo stress per la terapia, il rapporto conflittuale con le compagne) all’interno di un cammino di crescita comune: emergono, così, il bisogno di bruciare le tappe, il disagio di non corrispondere al proprio ideale, l’incapacità di relazionarsi serenamente col mondo adulto, l’ardimento erotico.

close: essere maschi oggi

Dhont torna a Cannes nel 2022, stavolta in Concorso: Close, storia di due tredicenni bullizzati, riceve il Gran Premio della Giuria (ex aequo con Stars at Noon di Claire Denis). “Il motivo più importante per cui faccio cinema – ha detto il regista – è avere un effetto sulle persone, mostrare loro qualcosa che potrebbero non aver mai visto prima”.

Close parte proprio da qui, il ragionamento al servizio dell’intrattenimento, in questo caso un melodramma ancora più struggente di Girl: una riflessione sulla mascolinità attorno al concetto di amicizia e nel momento cruciale dell’adolescenza, quando non c’è paura di esprimersi liberamente con un lessico affettivo senza sovrastrutture.

Close
Close

Close

(Lucky Red)

“Ma man mano che si diventa grandi e si supera la pubertà – spiega Dhont – ci si allontana sempre di più da quel vocabolario. Volevo mostrare quel legame tenero tra due ragazzi perché l’abbiamo visto raramente, ma anche come la società uccide un’amicizia”. Non c’è nulla di morboso né di ambiguo, in Close, che proprio in virtù dell’anagrafe dei protagonisti mette da parte l’aspetto sessuale o romantico: un film sulla solitudine di chi non è protetto dal sistema e sulla ferocia di una collettività che ha bisogno di incasellare e reprimere, sul dolore e sul senso di colpa, sulla salute mentale e sul desiderio di non essere come tutti.

I film di Dhont si aprono a nuove speranze e non a caso in Close ci sono due donne fondamentali per i due ragazzi: un legame che è un patto per il futuro. Il ragazzo che cercava l’evasione nel cinema si è riappropriato della realtà: “Non devo andare nelle giungle, nei deserti o nello spazio. Posso posizionare la macchina accanto a me: forse avrò qualcosa da dire su ciò che vedo, sulle aspettative riposte su di me, proprio a causa del fatto di essere nato maschio”.