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Lila Avilés
È una terra di cineaste, il Messico, dai tempi delle pioniere Mimí Derba e Adela Sequeyro passando per la matriarca Matilde Landeta fino a María Elena Velasco, Marcela Fernández, Maria Novaro e alle più giovani Tatiana Huezo e Patricia Riggen. Sono nomi magari oscuri a noi occidentali, dietro cui ci sono storie a volte dolorose che rivelano boicottaggi politici e meschinità misogine, ma che allo stesso tempo testimoniano quanto lo sguardo femminile attraversi tutto il cinema messicano. Certo, finora sono stati gli uomini i portabandiera internazionali: pensiamo ai cosiddetti “tre amigos”, cioè Alfonso Cuarón, Alejandro González Iñárritu e Guillermo del Toro, che per almeno un lustro (tra il 2014 e il 2019) hanno sbaragliato i festival, conquistato i botteghini e dominato gli Oscar.
Adesso c’è una regista pronta a raccogliere il loro testimone: si chiama Lila Avilés, ha quarantuno anni e, dopo un inizio come attrice (percorso interrotto in seguito alla gravidanza), ha lavorato in più reparti, dai costumi alla scenografia, approdando infine dietro la macchina da presa. All’attivo ha quattro cortometraggi e due lunghi, ma la sua carriera è già straordinaria.
Allieva delle sceneggiatrici Beatriz Novaro (che scrisse il cult Danzón) e Paula Marcovich, Avilés non ha mai studiato regia, si definisce una hippie, sfugge a classificazioni e dogmi, evita manierismi e sa parlare al cuore del pubblico. Basta vedere le sue foto: difficilmente nega un sorriso, che per lei significa accoglienza e comprensione, due qualità che porta dentro ogni lavoro. Con il lungometraggio d’esordio, La camarista (2018), i suoi connazionali l’hanno subito proposta all’Oscar per il film internazionale (candidatura mancata, ma d’altronde era l’anno di Parasite).
la camarista: lo stato della nazione
Girato in diciassette giorni, La camarista segue il quotidiano di una timida e riservata cameriera di un hotel di lusso, che si iscrive a un programma di formazione con la speranza di ottenere una promozione, emancipandosi così dalla mediocrità di una vita in terza classe. È un film introspettivo e quasi corsaro, che svela uno sguardo curioso ed eclettico, capace di triangolare l’esperienza teatrale (da lì arriva Avilés e all’origine c’è una pièce già portata sul palcoscenico con la protagonista, Gabriela Cartol), le suggestioni fotografiche (il libro Hotel della visual artist Sophie Calle, con le immagini di tutti gli oggetti, i rifiuti e i vestiti che gli ospiti lasciavano nelle stanze di un albergo veneziano) e un’incredibile tensione per gli spazi (la collocazione dei corpi nelle inquadrature, il design a definire i divari economici, le riprese dall’alto per suggerire l’oppressione e l’ostilità del sistema).
E Avilés, attraverso una sensibilità geometrica - che non è decorativa ma teorica - e l’apporto del sound designer argentino Guido Berenblum (sodale di Lucrecia Martel, leader carismatica del cinema latinoamericano nonché punto di riferimento per la regista), riesce a fare del film un trattato sullo stato della nazione, divisa più che mai tra chi si trova sempre più in alto, garantendosi tutti i comfort, e chi può solo aspirare a salire faticosamente un gradino nella scala sociale.
Miu Miu la chiama per realizzare Ojo dos veces boca, il corto numero 25 di Women’s Tales, la serie con la quale dal 2011 il brand invita due registe all’anno a girare brevi film con l’unica clausola che presentino gli abiti delle nuove collezioni. Al centro del suo corto c’è Luz, che lavora in una galleria ma sogna di cantare: mentre prepara un provino per Madama Butterfly, le sue amiche le insegnano a modulare la voce e a muovere le mani. Anche qui Avilés dà voce al sogno di una donna che ha che fare con la determinazione più che con l’ambizione, dialogando in qualche modo anche con la sua biografia: in un mondo che lei stessa definisce “chiuso e macho”, Avilès è diventata produttrice indipendente fondando la piccola Limerencia Films, con l’obiettivo di mantenere il controllo sul lavoro, difendere gli spazi di libertà e sostenere in futuro anche i film di altri registi.
Tótem o come elaborare il lutto
Per il momento ha realizzato in autonomia il suo secondo, potente lungo, Tótem – Il mio sole, presentato l’anno scorso al Festival di Berlino, vincitore dell’ultima edizione del Tertio Millennio Film Fest (festival che, nel 2019, aveva già ospitato il suo esordio) ed era nella shortlist dei quindici titoli in corsa per un posto nella cinquina dell’Oscar al miglior film internazionale. Vada come vada, Avilès ne è felice: “L’Argentina potrebbe avere Messi – ha dichiarato in un’intervista – ma il Messico ha Guillermo del Toro: sono una cinefila, essere stata selezionata dal mio Paese, ed essere anche una donna, è importante e sorprendente”.
Avvolta in un’atmosfera straniante e caotica, è una storia che si svolge nell’arco di una giornata, all'interno di una grande casa. Perno della narrazione è Sol, una bambina di sette anni: sta aspettando la festa di compleanno di suo padre, che sta morendo di cancro e per il quale ha in serbo un regalo speciale. E, a mano a mano che raccoglie i frammenti di un’angoscia diffusa, prende il cellulare della madre, si mette in disparte e chiede a Siri: “Quando finirà il mondo?”.
Tótem dimostra quanto sia autentico, naturale, istintivo il cinema di Avilés, così polifonico nel descrivere l’elaborazione del lutto da diverse angolazioni (chi si rapa per solidarietà, chi beve più del dovuto, chi regala bonsai coltivati per anni): non è solo un meccanismo per innescare la commozione, ma un percorso per interrogare le esperienze personali. Un film fluido, tenero e struggente, a cavallo tra la vita e la morte, l’ironia e il dolore, la terra e il sogno, la liturgia collettiva e la spiritualità individuale, esaltato dalla calda fotografia di Diego Tenorio, e che rivela una costellazione di mentori che comprende l’educazione alla meraviglia di Agnés Varda e la dimensione corale di John Cassavetes. Officine Ubu lo porta nelle nostre sale dal 7 marzo: non perdetelo, perché Avilès non è più una scommessa per il futuro, ma una certezza splendente.