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Kogonada
Sembrerebbe impossibile, nel 2025, mantenere il riserbo su una data di nascita, figuriamoci su un nome di battesimo. Eppure Kogonada ci sta riuscendo, forse perché si trova ancora ai margini del mainstream e non è inciampato nell’incubo di tutti coloro che scelgono pseudonimi o identità fittizie: “follow the money” ovvero imbattersi in qualcuno che decida di indagare sui guadagni dell’artista. Chiedere a Elena Ferrante, per l’appunto, ma a differenza della scrittrice (o scrittore, chissà) Kogonada non si nasconde e ci mette la faccia.
La voce, prima di tutto, poiché il primo cimento cinematografico del nostro è stato teorico, nella fattispecie una serie di apprezzatissimi video essay e “contenuti speciali”, realizzati principalmente per Sight & Sound ma anche su commissione della Criterion Collection. “Stavo facendo un dottorato in studi cinematografici – ha rivelato in un’intervista a The Guardian – ma era davvero una lotta cercare di esprimermi con il linguaggio accademico. Era molto più facile entrare nel mondo delle immagini e del montaggio. Sono un po’ ossessivo. Sono stato cresciuto per prestare attenzione alle forme”.
Queste piccole lezioni di cinema, del tutto antiretoriche e non di rado sorprendenti (il video sul neorealismo si sviluppa a partire da Stazione Termini, il che è singolare oltre che esaltante), analizzano l’estetica dei registi attraverso la giustapposizione di immagini, l’approfondimento di forme e contenuti, la prevalenza delle immagini sul testo. Dedicati anche ad autori (molto fortunati quelli su Wes Anderson e Jean-Luc Godard) e serie (il primo contributo, nel 2011, è dedicato a Breaking Bad), costituiscono una produzione saggistica che accosta Kogonada a quei grandi autori che dalla critica sono arrivati alla regia, in primis i giovani francesi passati dai Cahiers du Cinéma alla rivoluzione della Nouvelle vague (senza dimenticare i vari Antonioni, Risi, Pietrangeli, prima estensori e poi oggetti di recensioni).
![Columbus](https://www.cinematografo.it/image-service/version/c:MWE2NmUwMWUtYzkzMi00:OTRlZDk3OGItZGQzYS00/columbus-red-umbrella-1024x550-jpg.webp?f=3x2&q=0.75&w=3840)
![Columbus](https://www.cinematografo.it/image-service/version/c:MWE2NmUwMWUtYzkzMi00:OTRlZDk3OGItZGQzYS00/columbus-red-umbrella-1024x550-jpg.webp?f=3x2&q=0.75&w=3840)
Columbus
È solo una suggestione, certo, perché i tempi sono cambiati, la guerra al “cinema di papà” o al “calligrafismo” occupa gli archivi e Kogonada si muove in autonomia, senza affiliarsi a movimenti o correnti. Tutto coerente con quel che (non) sappiamo di lui, fermamente convinto che le biografie debbano tacere laddove è l’opera a parlare.
Sappiamo, tuttavia, che da bambino ha lasciato la Corea del Sud per gli Stati Uniti (“Sono cresciuto nella classe operaia” è una delle sue laconiche informazioni) dove oggi vive con moglie e figli (potrebbe avere tra i quaranta e i cinquant’anni, magari di più, chi può dirlo), e che l’origine del nome d’arte è dovuta a Kogo Noda, uno sceneggiatore caro a Yasujirō Ozu. “Mi piace l’idea di Chris Marker sul fatto che il tuo lavoro sia il tuo lavoro – ha spiegato a Filmmaker – e poi non mi sono mai identificato molto con il mio nome americano, che mi sembra sempre un po' strano vedere o sentire... Inoltre sono piuttosto affezionato agli eteronimi”.
Dalla saggistica alla narrativa: Columbus
È proprio l’attività videosaggistica di Kogonada a colpire alcuni produttori (tra i quali Chris Weitz, il creatore di American Pie), che nel 2017 investono meno di un milione di dollari (circa settecentomila, a esser precisi) per farlo debuttare come regista.
Ne viene fuori Columbus, che deve il titolo alla città dell’Indiana nota per essere “La Mecca del modernismo” per i molti esempi pubblici di architettura pubblica. L’affascinante contesto urbano, dalla Miller House di Eero Saarinen al municipio con le travi a sbalzo, innesca la trama: il film, infatti, racconta sì l’incontro tra un uomo coreano, bloccato in città perché il padre architetto è in coma, e una bibliotecaria che si prende cura della madre tossicodipendente e sogna di diventare architetta, ma soprattutto mette in scena un’avventura intellettuale ed estetica in cui c’è un nesso molto forte tra gli spazi interiori e quelli esterni (l’architettura come strutturazione del vuoto).
Kogonada guarda proprio a Ozu (Il tempo del raccolto del grano è un’ispirazione dichiarata, nelle inquadrature e nella limpidezza) e Columbus incanta per la fluidità dei dialoghi, la malinconia dello spirito, il bilanciamento dei toni, il coinvolgimento romantico (è anche una storia d’amore).
![After Yang](https://www.cinematografo.it/image-service/version/c:Y2NiMmMxNTgtYzg2Ni00:NDI3NWJiMDItN2FjNS00/after-yang.webp?f=3x2&q=0.75&w=3840)
![After Yang](https://www.cinematografo.it/image-service/version/c:Y2NiMmMxNTgtYzg2Ni00:NDI3NWJiMDItN2FjNS00/after-yang.webp?f=3x2&q=0.75&w=3840)
After Yang tra distopia e melodramma
Quattro anni dopo, nel 2021, la conferma: After Yang è una promessa mantenuta. Presentato al Festival di Cannes nella sezione Un certain regard, è un melodramma ambientato in un futuro prossimo (“Non sono necessariamente interessato al genere – ha detto al Guardian – ma mi chiedo sempre com’è la vita quotidiana dentro una realtà fantascientifica”), in cui una famiglia deve fare i conti con il sentimento della perdita dopo che la loro intelligenza artificiale si rompe inaspettatamente: quando il miglior amico di sua figlia, un androide, si rompe, il padre cerca di ripararlo e scopre parti della sua vita che gli sfuggono.
Interpretato da Colin Farrell e Jodie Turner-Smith, After Yang nasce da una tragedia personale (ovviamente il riserbo è massimo): “Il mio tipico cinismo – ha confessato al Guardian – sembrava imbarazzante e banale di fronte a una perdita e a un dolore reali. Mi ha riportato a ciò che amavo del cinema, mi ha permesso di essere più onesto e aperto”.
Nel suo proiettarsi in una dimensione distopica in cui le emozioni non abdicano in presenza di una tecnologia dominante, Kogonada realizza un’opera integra e struggente, completamente dentro i dilemmi e i turbamenti della contemporaneità e universale per come sa svincolarsi dalle contingenze cronachistiche. E che non dimentica mai la prospettiva saggistica, l’indipendenza del gesto, l’osservazione delle cose, la profondità dello scandaglio.
E ora, dopo aver diretto quattro episodi dell’epica Pachinko e due di The Acolyte, si prepara al grande salto: A Big Bold Beautiful Journey, una misteriosa love story in cui un uomo (ancora Farrell) e una sconosciuta (Margot Robbie) si mettono in viaggio seguendo le indicazioni di un GPS. Uscirà il 9 maggio (forse): potrebbe segnare la consacrazione di questo autore tanto straordinario nell’arte quanto sfuggente nel privato (e, chissà, qualcuno comincerà a indagare…).