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Gustav Möller a Berlino 2024
Classe 1988, Gustav Möller ha poco più di vent’anni quando si trasferisce da Göteborg a Copenaghen. Il cinema è stato sempre nel suo orizzonte: comincia a studiarlo al liceo, cresce a pane e Tarantino, ama Taxi Driver e Quel pomeriggio di un giorno da cani e non si sente molto affine alla produzione svedese degli anni Zero. Preferisce quella danese: dopo un corso alla KBH Film & Photo School, si iscrive alla Den Danske Filmskole, la prestigiosa scuola che ha formato, tra gli altri, Lars von Trier, Susanne Bier, Bille August, Ali Abbasi. Nel 2015, grazie al suo cortometraggio di diploma, In Darkness (I Mørke) riceve il Next Nordic Generation Award, dedicato ai migliori lavori provenienti dalle scuole di cinema dei paesi scandinavi.
È uno da tenere d’occhio, Möller, “someone to watch” direbbero gli americani: non ha nemmeno trent’anni quando, nel gennaio 2018, viene selezionato al Sundance Film Festival e vince il premio del pubblico con la sua opera prima, Il colpevole – The Guilty. Narrazione ad orologeria al servizio di una macchina produttiva che nell’economia fa di necessità virtù (budget inferiore ai 500.000 euro: “I limiti stimolano la creatività”), è un racconto che si regge su un concept fortissimo, comprensibile a tutte le latitudini (da cui il successo generale: quasi 5 milioni di dollari al botteghino mondiale), a partire dalle tre unità aristoteliche: un solo luogo, un tempo limitato, un’unica azione. L’intelligenza di Möller sta nell’evitare di ridurre il film a teorema, nell’emanciparsi dallo schema dell’esercizio teorico, nel dare consistenza a ciò che accade attraverso le parole.
il colpevole, tensione in tempo reale
Ha le idee chiare: “Mi interessa esplorare la prigionia mentale e fisica, voglio raccontare storie crude e realistiche”. Tutto accade sostanzialmente in tempo reale, all’interno di una macchina teatrale che riesce a trasformare l’atmosfera opprimente del Kammerspiel in qualcosa di più ampio: il racconto di una città, Copenaghen, che non vediamo mai eppure percepiamo presentissima.
Il protagonista (il clamoroso Jakob Cedergen, sempre in scena), un poliziotto confinato al centralino per un’indagine interna, deve fronteggiare le voci dei cittadini che denunciare un furto o invocano soccorso. Dall’atteggiamento dei colleghi capiamo che non è stimato, certe inflessioni della voce tradiscono consapevoli scatti d’ira, l’ansia per l’imminente processo in cui è imputato lo angoscia. La telefonata di una donna che sostiene di essere stata rapita diventa per lui l’occasione per dimostrare che merita la divisa: indaga, contatta la figlia, scopre i problemi della famiglia, sfora il turno, si isola dagli altri e si scontra con una realtà che è solo apparentemente semplice.
Con Il colpevole, Möller – che ha scritto la sceneggiatura insieme a Emil Nygaard Albertsen – si concentra sui contraccolpi della verità, sullo svelamento di quanto gli uomini possano essere frangibili fino a ferire chi li circonda, sulla necessità di mettere in discussione ogni convinzione. E lo fa costruendo un thriller chirurgico, esaltante per come monta la tensione cedere mai alla tentazione di uscire dall’unità di luogo per affidare la narrazione ad altre immagini. Un film di voci che si rincorrono, si accavallano, si cercano, si studiano. E di luci, che danno il ritmo della narrazione, passando dal freddo blu della stasi all’oscurità tagliata dal bagliore degli schermi fino al rosso dell’allarme che colora un volto devastato. Agli americani è piaciuto così tanto che nel 2021 ne hanno fatto un remake per Netflix, ovviamente non è all’altezza dell’originale, diretto da Antoine Fuqua, adattato da Nic Pizzolatto e interpretato da Jake Gyllenhaal.
Nel 2022 torna in Svezia e gira la serie The Dark Heart, tratta dal libro di Joakim Palmkvist, che vince al Festival Séries Mania. Möller non lo considera un giallo ma un character study: “Ciò che unisce il colpevole e la detective – spiega l’autore – non sono solo le differenze ma il fatto che vogliono realizzarsi e affermarsi nel mondo, l’uno attraverso un omicidio e l’altra con la sua soluzione”.
vogter: vendetta o perdono
Prigionia mentale e fisica, character study, dialettica tra due personaggi distanti ma vicini: tutti elementi che tornano in Vogter, secondo lungo di Möller, scritto ancora una volta con Nygaard Albertsen e passato in Concorso all’ultima Berlinale.
Ambientato proprio in un carcere, dove Eva (la straordinaria Sidse Babett Knudsen in un ruolo che il regista le ha cucito addosso), una secondina che crede davvero nella pena come rieducazione e perciò coltiva rapporti costruttivi con i detenuti, si ritrova di fronte un ragazzo, detenuto nel reparto di massima sicurezza, che ha qualcosa a che fare con il suo passato. Si fa trasferire in quel blocco, dove non c’è barlume di salvezza, ma l’idealismo non c’entra niente: c’è di mezzo una questione privata.
Se ne Il colpevole il controcampo della città era invisibile ma presente, qui la stessa funzione appartiene al passato, talmente imponente che non ha bisogno di flashback (basta una foto su un documento, in un momento straziante). Möller esce dall’unità di luogo (l’istituto è un dedalo), stringe l’inquadratura su Eva, ne osserva l’adesione emotiva, ideologica, corporea, cromatica a un sistema nel quale è completamente immersa (“Il carcere è ricco di simboli e archetipi, è un’arena in cui raccontare storie da un punto di vista diverso”), intreccia la tensione palpitante del prison drama con i conflitti di un dilemma morale che non lascia scampo.
“Ogni prigione è lo specchio della società che lo ha costruito – spiega l’autore – e in gran parte dell’Europa non abbiamo ancora deciso come vogliamo che siano: crediamo nel perdono e nella riabilitazione o preferiamo la vendetta e la punizione? Il sistema cerca di soddisfare entrambe le parti, anche se sono in contraddizione tra loro: è un paradosso che mi affascina”. Ignorato dalla giuria di Berlino, Vogter è incessante e lacerante: arriverà nelle sale italiane prossimamente grazie a Movies Inspired.