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Dea Kulumbegashvili
È nata a Orël, in Russia, nel 1986, Dea K’ulumbegashvili (traslitterazione del nome, d’ora in poi senza apostrofo), ma è cresciuta in Georgia, a Lagodekhi, meno di seimila abitanti ai piedi del Caucaso, in una famiglia a prevalenza femminile in un Paese profondamente patriarcale. Non sono solo dei dati biografici ma elementi che hanno contribuito in modo decisivo a plasmare lo sguardo di questa autrice che, a trentotto anni, si staglia tra le voci più acclamate della sua generazione e di una certa idea di cinema che, all’ultima Mostra di Venezia, dove era in gara con April, la sua opera seconda, è stata onorata con il Premio Speciale.
E non è un caso che nella giuria del festival ci fosse anche Agnieszka Holland, vincitrice dello stesso riconoscimento nel 2023 con Green Border: una sorta di ideale passaggio di testimone tra due generazioni di cineaste che, pur nella diversità di vedute e visioni, non si tirano indietro nel raccontare e denunciare le tragedie di comunità umiliate e offese. Curiosamente, è la Biennale – via palmarès – a certificare la rilevanza di Kulumbegashvili, che, dopo gli studi a New York e alla Columbia University, è entrata subito nell’orbita di Cannes: i suoi primi cortometraggi, Invisible Spaces (2014) e Lethe (2016), sono stati entrambi presentati sulla Croisette, e lo stesso festival le ha offerto la Résidence della Cinéfondation per lavorare al lungo d’esordio, poi presentato come parte della selezione ufficiale del 2020 (quando il festival fu sospeso per Covid). Quel film, Beginning, trovò comunque uno spazio in quell’anno così complicato: prima a Toronto e poi San Sebastián dove la giuria presieduta da Luca Guadagnino (nome che ritroveremo) gli ha assegnato tutti e quattro i premi principali, compresi quelli per regia e sceneggiatura.
beginning, l’allucinazione nel realismo
Ambientata in una sonnolenta cittadina di provincia, segue una comunità di Testimoni di Geova che viene attaccata dalla molotov lanciata da un gruppo estremista: un’esplosione che, pur dirompente, non è il centro del film, ma l’evento che svela un trauma altrui. Il protagonista, infatti, non è il “problema” ma Yana, ex attrice e moglie del leader della comunità (la magistrale Ia Sukhitashvili, una delle regine del teatro nazionale), che vede tutto sgretolarsi lentamente. Nel raccontare un trauma collettivo attraverso una prospettiva personale che potrebbe diventare anche una specie d’indagine poliziesca, Kulumbegashvili definisce subito la potente peculiarità di uno stile anticonvenzionale: lunghe riprese, camera fissa, esercizio del fuoricampo.
Beginning è una sfida al realismo che approda all’allucinazione, un enigma che rompe gli equilibri meno confortanti, un mistero che sconvolge senza rinunciare al rigore espressivo. “Voglio che il pubblico entri in qualche modo nel mondo di Yana – spiega la regista in un’intervista a Sight & Sound di maggio 2021 – e che sperimenti ciò che sta vivendo. In generale, quando pensiamo a un personaggio, quanto dobbiamo sapere? Questo è il potere di Yana: non spiega”.
Il fatto che la narrazione accolga la storia di Abramo e Isacco e una lezione su Satana ci dice molto di una lettura in termini religiosi: “La cultura europea è basata sulla religione cristiana, non potrebbe esistere senza di essa: la nostra morale, la nostra comprensione del bene e del male, il modo in cui ci relazioniamo alla vita. Eppure, allo stesso tempo, sembra irrilevante, perché nessuno ferma il sacrificio di Yana”. Ma ciò che ha reso Beginning una delle esperienze più perturbanti del cinema recente è un lunghissimo primo piano di sei minuti di Yana sdraiata in una foresta con gli occhi chiusi: “Per me, questo è il cinema: è semplice, è luce, è la macchina da presa, è umano, è natura, non ho bisogno che accada nulla in termini di azione”.
april, l’epica del dolore
Quattro anni dopo, ecco April (coprodotto da Guadagnino, appunto), che mette al centro Nina (ancora Sukhitashvili), una ginecologa che alterna la professione ufficiale in ospedale con quella clandestina, in cui pratica aborti clandestini (il film è stato realizzato a pochi mesi dalle nuove restrizioni in materia del Ministero della Salute, da cui la decisione di non cercare finanziamenti statali in Georgia).
Dopo la morte di un neonato durante il parto (che vediamo dall’alto in tutta la sua crudezza, lasciando però fuoricampo l’evento che innesca il dramma), Nina finisce sotto inchiesta ma non rinuncia né alla sua attività occulta (anche perché qualcun altro ci penserà al posto suo) né a sopravvivere in un’esistenza che pare degradare verso il basso, dalla ricerca di incontri occasionali alla progressiva magrezza di un corpo votato al sacrificio. E che sembra tradursi, se non proprio sdoppiarsi, in una misteriosa creatura che appare in una manciata di occasioni, uno scafandro dalla pelle flaccida e consumata, senza volto né identità, che ci testimonia lo svuotamento interiore e l’avvilimento della carne di una donna capace di empatia ma non di legami, che si porta addosso i traumi (come sopportare l’annichilimento del miracolo della vita laddove la vita, specie di una donna, è condannata a non essere vissuta a pieno?).
April conferma l’appartenenza di Kulumbegashvili al cosiddetto “cinema della contemplazione” (o “slow cinema”) in cui la verità promessa porta la rappresentazione finzionale ad aderire alla realtà fattuale. Uno stile radicale nella forma e nel contenuto, che si impone a forza di soggettive sconvolgenti e long take statici e dilatati, rarissimi movimenti di macchina e tagli di luce che plasmano ombre, immagini in 4:3 di grande cura formale e tableaux vivants misteriosi e traballanti che non dimenticano l’importanza dei suoni e dei rumori (il ticchettio degli orologi, i versi degli animali, le pompe idrauliche, i motori dei camion). In lei troviamo la lezione di Carlos Reygadas (non a caso tra i produttori di Beginning) e Tsai Ming-liang, un’epica del dolore apparentemente impenetrabile eppure straziante che dal dato locale si proietta in quello universale.