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Carla Simón
Forse il cinema europeo non esiste (ancora?) ma di certo esistono alcuni autori, soprattutto giovani, che cercano di raccontare qualcosa sul continente partendo da situazioni particolari, profondamente ancorate alla cultura dei propri paesi. Il romanzo – finora mancato – di un continente e del suo tempo si configura sempre di più in una serie di racconti che sanno parlare del presente dialogando con la memoria e intercettano il collettivo posizionandosi nel privato.
Tra le voci di questo movimento spontaneo e non strutturato c’è quella della catalana Carla Simón. Nella cui biografia c’è molto di un’epoca, le sue ferite e i suoi tormenti, e nei due film che ha girato c’è la testimonianza di un mondo che resiste nonostante tutto. All’origine del suo esordio nel lungometraggio (che arriva dopo cinque corti realizzati tra Stati Uniti e Gran Bretagna: ha studiato alla London Film School) c’è, infatti, la sua stessa vita.
ESTATE 1993: LE CONSEGUENZE DELL’AIDS
Estate 1993 (2017) segue il nuovo corso esistenziale della piccola Frida, che a soli sei anni viene affidata agli zii dopo aver perso i genitori, entrambi morti di AIDS. Classe 1986, Simón fa parte di quella generazione che ha subito le conseguenze dirette della pandemia del virus, del padre, una tragedia che il cinema europeo ha raccontato “in diretta”, spesso dal punto di vista della comunità omosessuale (Once More di Paul Vecchiali, ma soprattutto le opere testamentarie di due autori morti per la malattia, cioè Derek Jarman con Blue e Cyril Collard con Notti selvagge). In Spagna, la diffusione del virus era legata soprattutto al dilagante consumo di eroina, effetto collaterale della ritrovata libertà dopo la dittatura di Franco. A distanza di anni, Simón recupera quel drammatico momento storico – oggi forse un po’ dimenticato – per affrontare qualcosa di universale: come si spiega la morte a una bambina, come si impara a convivere con una mancanza, come si fa pace con i ricordi per andare avanti.
“La Spagna – ha detto la regista in un’intervista a Sight & Sound – è stato il paese europeo con il maggior numero di morti a causa dell’AIDS, quindi ci sono molte storie come la mia. Non ne se ne parla molto, ma quando accade ti rendi conto che la maggior parte di noi conosce qualcuno che è morto di AIDS”. Seguendo le lezioni di maestri come Victor Erice (Lo spirito dell’alveare) e Carlos Saura (Cría Cuervos), Simón mette Frida al centro del mondo, si rispecchia nel suo spirito di sopravvivenza e nel suo orizzonte di speranze, tiene fuori la cronaca della morte che è stata e si concentra sulla vita che resta e trova la giusta distanza nel trattare un tema che la tocca ma che diventa storia collettiva. E questo accade anche per il contesto in cui si svolge Estate 1993: la campagna della Catalogna, nuova casa di Frida/Carla.
Alcarràs e le sfide della società agricola
Da qui si irradia l’opera seconda della regista, Alcarràs – L’ultimo raccolto, vincitore dell’Orso d’Oro al Festival di Berlino 2022. Ambientato in una specie di Far West catalano, la zona in cui vivono tuttora i genitori adottivi (biologicamente gli zii) di Simón, è un affresco che mette insieme l’evocazione autobiografica, la persistenza della ruralità e le contraddizioni del progresso, con tre generazioni di agricoltori impegnati per l’ultima volta nel frutteto di cui si prendono cura da generazioni: devono, infatti, abbandonare a breve quei terreni per lasciare spazio all’installazione di pannelli solari.
La vicenda è evidentemente allegorica, eppure ben impiantata nella realtà. Da una parte ci sono le sfide della sostenibilità, che trovano un referente simbolico nelle energie rinnovabili, e i problemi dell’insostenibilità di un modello di agricoltura che non riesce, non può, non deve stare al passo delle grandi aziende (“Quando vuoi lasciare la terra ai tuoi figli e nipoti, te ne prendi cura; se sei una grande azienda, sfrutti la terra e se non ti dà frutti la lasci” ha detto Simón in un’intervista al The Guardian), e di riflesso le difficoltà della transizione ecologica (ma i personaggi del film non sono assimilabili agli agricoltori che hanno di recente protestato contro le norme europee: parliamo di contadini autonomi, estranei alle pratiche industriali e convenzionali).
Nello sguardo della regista non c’è alcun cedimento al calligrafismo né all’effetto cartolina: non c’è l’esaltazione aprioristica di uno stile di vita genuino o ancestrale quanto piuttosto un filtro nostalgico nei confronti di un modello di vita in comunione con il ciclo della natura, senza ideologie (viene in mente quel passaggio di Un mondo a parte in cui si parla proprio di questo: il “villaggio rurale” come piacere “esotico” per un élite disinteressata al quotidiano di quelle comunità). Dall’altra c’è la celebrazione della famiglia come sodalizio umano e professionale, al di là dei vincoli di sangue, e Simón dà spazio a tutti, con umanismo ed empatia, confermandosi come nell’opera prima una grande direttrice di bambini e bambine (qui l’infanzia è associata a una gioiosa anarchia, a una libertà di movimento che si riflette nella rapidità di pensiero).
Alcarràs trova aderenza alla realtà grazie al coinvolgimento di interpreti non professionisti, alcuni dei quali con storie simili a quelle del film (Jordi Pujol Dolcet, che interpreta il pater familias, è stato un contadino e ora lavora al Comune), e a un metodo di lavoro molto immersivo (le riprese sono state precedute da tre mesi di vita quotidiana in una grande casa, come ha acutamente notato Pedro Almodóvar: “Dietro l’apparente semplicità si nasconde un regista meticoloso, con centinaia di ore di lavoro preparatorio che fanno sembrare questo capolavoro un documentario”). Ne è venuto fuori un affresco jazz e quasi bohémien, stratificato e profondo tanto nei temi quanto nello spirito, capace di intercettare tensioni e urgenze di un intero continente attraverso i racconti particolari di sogni e bisogni delle comunità: che sia forse questo il segreto del cinema europeo?