“Il documentario è un laboratorio, la forma più libera e aperta di cinema” sostiene la marocchina Asmae El Moudir. Un cognome, il suo, che in arabo ha un significato piuttosto eloquente: regista. Registe si nasce, direbbe qualcuno: nomen omen, il destino nel nome, ma il tema è la vocazione. Lasciamo i presagi ai sistemi di credenze: quello di Asmae El Moudir è, piuttosto, un lavoro in fiero, un percorso di costruzione dello sguardo.

Inizia con la fotografia, poi si dedica alla filosofia, prova con la narrativa, il disegno, le poesie. Nella ricerca di questa donna oggi trentaquattrenne c’è un segno evidente: all’invenzione preferisce la reinvenzione. Da cui l’approdo nel cinema, arte delle arti poiché al crocevia tra riflessione e creazione: la folgorazione – o la quadratura, a seconda delle opinioni – avviene in una scuola locale, viatico di esperienze più strutturate.

Praticamente ventenne, El Moudir, si laurea alla Moroccan Film Academy in regia, per poi frequentare un programma universitario estivo a Parigi, presso la scuola La Fémis, e conseguire ben due master, uno in cinema documentario all’Università Abdelmalek Essaâdi di Tetouan e uno in produzione all’Istituto Superiore di Informazione e Comunicazione di Rabat a Rabat.

Il periodo di formazione coincide con quello dei primi lavori: tra La Dernière balle (2010), Les couleurs de silence (2011), Harma (2016), Guerre oubliée (2019), val la pena concentrarsi su due corti. Rough Cut (2015) mette al centro un vecchio proiezionista che lavora in un cinema lontano dalla città minacciato dalla chiusura e il suo nipotino decenne che, frugando nelle cose del nonno, scopre vecchi pezzi di film capaci di sovvertire un futuro già scritto.

dai primi corti al debutto nel lungometraggio

Thank God It’s Friday (2013), invece, è la storia di una ragazza che ricorda le cene del venerdì, un momento tradizionale in cui la famiglia si riuniva per incontrarsi e discutere: attraverso uno spaccato privato restituito anche grazie alle matrioske, El Moudir traccia una storia del Marocco e delle sue disattese speranze di cambiamento, costruendo un’allegoria della memoria fatto di flussi di coscienza e assonanze sentimentali. Sono due corti che sottolineano gli elementi che fondano il lavoro della regista: la fiducia completa nel cinema, nelle sue immagini rivelatorie e nel suo dialogo con la vita; e l’esercizio della memoria come strumento di affermazione di sé e di una collettività.

The Postcard
The Postcard

The Postcard

Due linee che, non a caso, ritroviamo nei due lungometraggi girati dalla regista. Il primo, The Postcard, realizzato nel 2020 grazie ad Al Jazeera, è un piccolo saggio di cinema del reale, che parte dal particolare per farsi universale. È la stessa regista a innescare tutto, quando, tra gli effetti personali della madre, trova una vecchia cartolina che ritrae un villaggio di montagna: Zawia, che sua madre lasciò da bambina per non farci mai ritorno. El Moudir decide di recarsi proprio lì, dove il tempo sembra essersi fermato.

La missione è chiara: la cartolina, l’immagine ritrovata, è un pretesto per scoprire quali sono le immagini mancanti, cioè il passato (misterioso) della madre e i motivi per cui non è più tornata lì; ma è anche un modo per conoscere meglio una comunità così diversa dalla sua, mettendosi in contatto con le donne adulte e con quelle più giovani.

Come le migliori opere prime, The Postcard dice qualcosa (anzi di più) della sua autrice senza abbandonarsi all’autoreferenzialità: il viaggio intimo e personale alla ricerca delle radici familiari diventa una storia universale su emancipazione e cambiamento, nella consapevolezza che la vita della madre sarebbe stata diversa se fosse rimasta nel villaggio. Il doc entra nel circuito dei festival di settore, passa ad Amsterdam e a Stoccolma, ma manca l’appuntamento con una grande platea.

The Mother of All Lies: i sommersi e i salvati

Che arriva tre anni dopo, quando l’opera seconda della regista viene selezionata al Festival di Cannes, nella sezione Un Certain Regard: iniziato nel 2012, The Mother of All Lies (l’originale Kadib Abyad sta per Bugia bianca: il doc è inedito in Italia) vince il premio per la miglior regia e viene proposto dal Marocco per la candidatura all’Oscar come film internazionale (si ferma alla shortlist dei quindici titoli). Anche qui abbiamo sempre a che fare con le immagini mancanti, in questo caso l’album di famiglia: El Moudir, infatti, scopre che sua nonna Zahra ha sempre proibito che si scattassero fotografie.

The Mother of All Lies
The Mother of All Lies

The Mother of All Lies

Un divieto che confligge con la necessità di custodire la memoria attraverso frammenti visivi di vita quotidiana e ritratti di cari estinti. E che evidentemente rappresenta un limite per chi ha scelto il cinema come strumento espressivo. Allora la regista e suo padre decidono di ricreare quel passato senza immagini: riproducono congiunti e amici in miniatura in argilla, ricreano i luoghi dell’infanzia di El Moudir, il quartiere Sebata di Casablanca, e chiamano “i sopravvissuti” per interagire con le statuine e riflettere sul loro passato. Un processo di disseppellimento dei ricordi che svela un pezzo di storia marocchina: le rivolte del pane a Casablanca nel 1981 che portarono al massacro di molti residenti.

Il punto di vista dell’autrice si riallaccia al suo sguardo infantile, realtà e finzione dialogano per mostrare come i ricordi possano complicare l’identità di una persona. Perciò il dato biografico è, come in The Postcard, solo un innesco: “Non sto cercando di documentare la vera storia della mia famiglia – ha dichiarato in un’intervista – ma di fare un film sulla pluralità di interpretazioni che esistono all’interno di una famiglia”.

La storia di una famiglia è sempre il pezzo di una storia più grande, come quella di un popolo convinto che fotografare fosse sinonimo di dannazione: scopriamo che il divieto è la reazione a un trauma indicibile, che la memoria ha bisogno di prove tangibili per essere trasmessa e preservata. E che il cinema, uno spazio aperto e libero in cui misurare le conseguenze della verità, può essere anche uno strumento terapeutico, come ha confessato la stessa regista: “Oggi finalmente posso fare foto con mia nonna”.