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Meryl Streep con il Golden Globe vinto nel 2007 (Webphoto)
Che i Golden Globe non godano delle attenzioni di un tempo è fuor di dubbio, anche se in Italia è risuonata un po’ flebile l’eco degli scandali che hanno travolto la Hollywood Foreign Press Association.
Negli Stati Uniti, invece, l’organizzazione della stampa estera è stata al centro di critiche feroci e accuse infuocate: le molestie sessuali del suo ex presidente Philip Berk, il razzismo e la scarsa rappresentanza delle minoranze all’interno del già di per sé esiguo gruppo di elettori, la corruttibilità di alcuni dei suoi membri, ben contenti di farsi pagare vacanze e benefit dalle case di produzione.
Emblematico caso della trasferta di lusso offerta da Netflix in occasione del lancio della serie Emily in Paris, poi curiosamente candidata nelle categorie principali, ma la storia di questo riconoscimento è piena di situazioni incresciose, con nomination forse “comprate” dalle major e premi concessi come “favori” da restituire (negli annali le polemiche per la statuetta assegnata Pia Zadora, moglie del miliardario Meshulam Riklis, nel 1982, o la candidatura del flop The Tourist come miglior commedia nel 2011).
Dopo aver affollato le allegre e sontuose cerimonie di premiazione ad alto tasso alcolico, le star si sono improvvisamente indignate, in primis Scarlett Johansson e Mark Ruffalo, fino a Tom Cruise che ha addirittura restituito i tre Golden Globe vinti in carriera. E il sistema ha appoggiato il boicottaggio dell’edizione del 2021, ridotta a una specie di conferenza stampa lontana dai fasti del passato recente. L’HFPA, ben consapevole della forza (soprattutto all’estero) del brand Golden Gobe, ha promosso una profonda autoriforma, con l’allargamento del corpo elettorale e una maggiore attenzione ai curricula e agli interessi dei membri dell’organizzazione.
Cambiare non è mai facile e, tutto sommato, continuano ad aleggiare i sospetti attorno a questo piccolo gruppo di votanti non americani ben lieti di celebrare l’industria audiovisiva americana. Cosa ne esce dalle candidature di quella che è, nei fatti, la prima edizione dopo la riforma? Qualcosa, effettivamente, è cambiato.
Le star che un tempo sarebbero state candidate d’ufficio hanno lasciato il posto a interpreti meno glamour: mancano i previsti Harry Styles (My Policeman) e Will Smith (Emancipation) ma ci sono la filippina Dolly DeLeon di Triangle of Sadness e i non protagonisti dell’amatissimo Gli spiriti dell’isola, Kerry Condon e Barry Keoghan, non ci sono Julia Roberts e George Clooney (Ticket to Paradise era il tipico film da Golden Globe, popolare e patinato) ma ci sono la stimata Lesley Manville (La signora Harris va a Parigi) e l’inedito Diego Calva (Babylon). Un tentativo di dimostrare attenzioni nei confronti del cinema meno “industriale” che però svelano anche una certa pigrizia nella selezione dei titoli e un ammiccamento ai mille riconoscimenti dei circoli territoriali dei critici americani che si accumulano durante la stagione dei premi.
Le star che escono dalla finestra del cinema rientrano dalla porta della serialità. Panorama fertile, che sta attirando attrici e attori che sembrano trovare occasioni migliori rispetto al grande schermo. Ma l’HFPA, al di là della loro effettiva resa spesso ineccepibile, candida ben volentieri le star che si sono date alle gioie della televisione e delle piattaforme: Roberts, Jeff Bridges, Kevin Costner, Selena Gomez, Andrew Garfield, Sebastian Stan, Colin Firth, Taron Egerton, Seth Rogen. In fondo l’obiettivo è sempre lo stesso: avere una cerimonia piena zeppa di star sorridenti e gaudenti. Solo che vengono nominate per le serie e non più per i film.
Nel campo dei registi non ci sono donne (sei maschi, cinque bianchi anglosassoni e uno americano di origini cinesi; un anno fa erano due, due anni fa ben tre) e non ci sono film diretti da donne tra i dieci candidati nelle due categorie, dramma e commedia. Per trovarle dobbiamo scendere fino a sceneggiatura e colonna sonora (Sarah Polley e Hildur Guðnadóttir per Women Talking) e naturalmente canzone originale (Taylor Swift, Lady Gaga, Rihanna). Sembra una beffa: c’era più rappresentanza quando il comitato era oggetto di accuse di sessismo e razzismo.
Ma forse l’assenza più clamorosa è da segnalare sul fronte televisivo, dove non c’è traccia di Il Signore degli Anelli – Gli Anelli del Potere, la mastodontica produzione di Amazon Prime Video costata la mostruosa cifra (dichiarata) di 715 milioni di dollari. Cosa vuol dire? Che il colosso dello streaming non ha ritenuto opportuno “investire” in una campagna per vincere un Golden Globe? Che punta tutto sugli Emmy, che si terranno fra più di sei mesi e stanno assumendo un valore pari all’Oscar? Oppure che, semplicemente, gli elettori dell’HFPA non hanno amato i primi otto episodi di questo colossale progetto?
A questo punto c’è da chiedersi se il sistema ha davvero interesse a sostenere l’operazione di riposizionamento morale e pulizia dell’immagine pubblica promossa dall’HFPA e quanto le star – soprattutto quelle impegnate contro i soprusi – vogliano scommettere su un tentativo di rinnovamento che nasconde anche una specie di restaurazione. In fondo, a questa gente, conviene vincere un Golden Globe, un premio che potrebbe rivelarsi un boomerang?