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Nan Goldin, "Nan and Brian in bed" NYC 1983 (Photo courtesy of Nan Goldin)
Pensavamo che si fosse esaurita la moda degli anni Ottanta, che Stranger Things fosse l’ultimo capitolo di un ciclo. Abbiamo fatto indigestione, degli anni Ottanta: dei suoi feticci e dei simulacri, dei miti e dei riti, tant’è che oggi – un po’ come a suo tempo è capitato con gli anni Cinquanta riplasmati da Happy Days – quel decennio ce l’abbiamo in mente più per come è stato raccontato dopo che per ciò che è stato davvero in quel momento. Le hit discografiche, i cult cinematografici, gli idoli giovanili.
Non a caso le star di quegli anni hanno brillantemente capitalizzato quel passato: per limitarci al cinema, Harrison Ford con gli eterni ritorni di Indiana Jones, Michael J. Fox e il suo legame con la community di Ritorno al futuro, Eddie Murphy che ripropone Il principe cerca moglie e l’annunciato Beverly Hills Cop, senza dimenticare Steven Spielberg che è comunque il più teorico di tutti (Ready Player One) fino agli ultimi casi di Ke Huy Quan e Jamie Lee Curtis che in un film ultracitazionista come Everything Everywhere All at Once portano in dote la loro storia cinematografica. E i film ormai cristallizzati nell’immaginario si sono aggiornati alle esigenze (vere o presunte) della contemporaneità, dalle nuove trilogie di Star Wars ai reboot di Ghostbusters e di horror come Halloween.
«Che resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani?» si chiedeva Aldo Busi nell’incipit di un capolavoro degli anni Ottanta, Seminario sulla gioventù, per poi rispondere: «Nulla, neppure una reminiscenza». E della gioia? Cosa resta? È da qui che nasce il business della nostalgia, uno dei sentimenti (del tempo) più acritici e fortunati, un dispositivo che ci permette di evadere da un presente che non ci soddisfa e immaginare un futuro all’altezza del passato che continuiamo a rimpiangere.
Ce lo dimostra Top Gun: Maverick, che al di là dei suoi valori formali e industriali ha il potere (imprevisto?) di riconfigurare il prototipo che è (ancora) il manifesto dell’America di Ronald Reagan: conservatore, militarista, maschilista. Che poi sia anche un film vitale e coinvolgente non c’è dubbio, ma il suo sequel a trentasei anni di distanza sembra offrire una nuova chiave di lettura all’intero sistema: il giovane eroe con cui identificarsi in un’epoca edonista è diventato il mentore (leggi: il padre) a cui ispirarsi per poter superare la notte, per uscire dal crepuscolo e immergersi nell’alba di una nuova era.
Quel personaggio è Tom Cruise, un simbolo degli anni Ottanta, appunto, uno che riesce a preservare il proprio divismo senza legarsi alla celebrazione nostalgica ma rinnovando una delle caratteristiche principali del divismo stesso: la straordinarietà, perché tutto ciò che fa Cruise è fuori dall’ordinario. Uno status che si esalta accanto alla presenza ormai fantasmatica di Val Kilmer, oggi solo il ricordo del sex symbol che fu a causa di una devastante malattia, l’unico che può permettersi di dire a Cruise-Maverick che «è tempo di lasciarsi alle spalle il passato».
In questo senso Maverick fa un uso insolito della nostalgia e funziona sia sul piano rassicurante del “ritorno a casa” sia su quello più ambizioso del riposizionamento nel presente, agendo all’interno del cinema popolare e commerciale («Tom Cruise saved Hollywood’s ass and the entire theatrical industry» ha ben detto Spielberg).
Ma è un caso a sé, straordinario come il suo protagonista, perché la tendenza – e non la moda, attenzione – a tornare agli anni Ottanta ci sembra sia legata a questioni diverse: quel decennio è ancora la madeleine di molti autori di mezz’età, rappresenta la loro giovinezza e, spesso, il loro primo incontro con il cinema. E la pandemia ha sicuramente contribuito alla costruzione di film personali (se non proprio autobiografici), che tornano indietro nel passato per fare un punto sul presente, uscire da una situazione magari di blocco creativo o produttivo.
È un discorso che vale fino a un certo punto per gli italiani, loro sì, chi più e chi meno, avvinti come l’edera: la Napoli di Maradona, quella dello scudetto del 1987 in particolare, appare come età dell’oro tanto nello struggente memoir È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino quanto in Mixed by Erry di Sydney Sibilia, che ricostruisce l’epopea dei falsari di audiocassette, e nel formativo Piano piano di Nicola Prosatore nonché trasversalmente pure in Laggiù qualcuno mi ama, il documentario di Mario Martone dedicato a una figura apicale del decennio, Massimo Troisi (la cui eco, guarda caso, si sente nelle interpretazioni dei protagonisti di Sorrentino e soprattutto di Sibilia).
E non vale per i period drama, benché un film come Argentina, 1985 di Santiago Mitre, la solida e commovente ricostruzione del processo che mise alla sbarra la giunta militare argentina, ci dimostra che il passato uno spazio problematico, da scavare e studiare per fare i conti con il presente e il futuro. Non c’è l’idealizzazione quanto l’orgoglio per supereroi che sono common man, cioè gli “avvocati del popolo”, armati di coraggio e l’oratoria con l’obiettivo della giustizia.
Ma, insomma, gli anni Ottanta non vogliono passare, solo che alla compiaciuta nostalgia del tempo perduto (e del suo immaginario) si sostituisce un sentimento più complesso, che riguarda la consapevolezza delle contraddizioni, delle disfunzioni e delle zone d’ombra di un periodo spesso solo celebrato e rimpianto. Come si vede nelle ricognizioni autobiografiche, da Forever Young di Valeria Bruni Tedeschi a The Souvenir di Joanna Hogg, dove le autrici rinarrano i rispettivi racconti di formazione (l’una da attrice alla scuola di Patrice Chéreau, l’altra da studentessa di cinema nell’Inghilterra thatcheriana) per mettere in scena una generazione ferita a morte dalle dipendenze (l’eroina) e da un’epidemia (l’AIDS).
La divergenza in una nazione conservatrice si ritrova in Tutta la bellezza e il dolore, il documentario di Laura Poitras dedicato a Nan Goldin che rievoca The Ballad of Sexual Dependency (1985), mostra e poi libro che testimonia anche la presenza dell’eroina nell’underground newyorkese, e in Bones and All di Luca Guadagnino (che già in Chiamami col tuo nome aveva concentrato un decennio tenendo dentro Bertolucci e Bertè, Moroder e Rohmer, The Psychedelic Furs e Pialat) che sembra quasi il negativo di Top Gun: i cannibali come i loser, i dimenticati, i tossicodipendenti alla ricerca della dose, in definitiva i marginali di un’America che vuole essere vincente, attraente, potente.
Sarà forse che questi film sono stati immaginati durante la presidenza di Trump, ma anche il fin troppo bistrattato Armageddon Time di James Gray l’America di Reagan legge il privato alla luce oscura del pubblico. Nel crinale tra infanzia e adolescenza, Gray annuncia la sua vocazione al racconto, che prima di essere cinematografico (non è il piccolo Spielberg folgorato da Il più grande spettacolo del mondo nel poco nostalgico The Fabelmans) è soprattutto misura delle cose.
Armageddon Time narra l’avventura di uno sguardo vergine e borghese all’incrocio tra scombussolamenti (l’incomunicabilità con i genitori), perdita di coordinate (il rapporto bellissimo e destinato a finire con il nonno Anthony Hopkins, un emigrato che si porta dietro tutti i drammi del Novecento e tutta la voglia di riscatto di chi è scappato dalla catastrofe), scoperte (la tormentata amicizia con un ragazzo afroamericano, ribelle e povero), in una New York che è sineddoche dell’America pronta a vivere il decennio reaganiano, come si vede nell’apparizione di Maryanne Trump (Jessica Chastain), una figura resa inquietante dallo sguardo infantile e che rappresenta proprio quel Paese reazionario e conservatore intenzionato a imporsi di nuovo al centro del sistema.
C’è certamente la volontà di offrire un parallelismo con la contemporaneità, tant’è che negli anni Ottanta di Gray non c’è quella nostalgia, quanto piuttosto il rimpianto per le evoluzioni mancate di un Paese troppo ebbro per guardarsi dentro davvero. Così come non c’è in Rumore bianco, lo sfortunato adattamento di Don DeLillo secondo Noah Baumbach, che, a volerne estrapolare temi e argomenti, è (anche) una satira sul consumismo rampante che interroga l’ansia dell’apocalisse.
E nonostante le apparenze non c’è reale nostalgia nemmeno in Empire of Light di Sam Mendes, altro titolo fin troppo maltrattato, che manifesta in termini allegorici un passato che non è né idealizzato né ingigantito ma solo ripensato: il dove, cioè un luogo di fruizione collettiva molto evocativo che allo stesso tempo è un posto di lavoro con persone normali (la sala cinematografica); il quando, ovvero un momento storico dominato dalla recessione e dalle politiche di destra (dalla Thatcher alla Brexit, il dialogo con il presente è servito); e il come, con una protagonista vulnerabile (Olivia Colman) stanca di essere oggetto sessuale e desiderosa di essere finalmente un soggetto amoroso, che riverbera il proprio spaesamento proprio attraverso il cinema. Che alla fine resta una scintilla di luce, come spiega il proiezionista Toby Jones: «Sono solo fotogrammi statici con in mezzo il buio… La visione di immagini statiche in rapida successione crea l’illusione del movimento, l’illusione della vita».