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Mike Faist e Zendaya as Tashi in Challengers
“Ogni mattone, ogni uomo, ogni tessuto è la testimonianza di ciò che siamo stati…”, dichiara il patriarca di Io sono l’amore, un adagio che sembra venire direttamente da Il gattopardo. E Luca Guadagnino comprende sensibilmente la lentezza funebre del “gattopardo”, un animale dalla malinconia greve e il cuore immobile. Quando le antilopi accelerano, muore ma la sua eleganza perdura nel “paesaggio”.
Nato a Palermo da una madre algerina e un padre siciliano, professore di storia e di letteratura italiana, è stato allevato nella nostalgia delle grandi famiglie italiane, dell’arte e della moda. In un’ambiente colto, non necessariamente legato alla ricchezza materiale, ma al patrimonio culturale. Un gusto ancestrale, che si tramanda di generazione in generazione, irriga il suo cinema e forgia un vocabolario cinematografico e stilistico venerato dal mondo della moda. L’autore di A Bigger Splash e Chiamami col tuo nome si distingue anche per questa singolare relazione col mondo dell’haute couture e dell’interior design. Meglio di chiunque altro sa che lo spazio, le case e i costumi raccontano storie nelle storie. E Guadagnino si considera soprattutto un narratore.
I suoi film sono poemi sull’identità, racconti di formazione che bruciano, manifesti politici per la sensualità e la tolleranza. Da Io sono l’amore fino a Challengers attivano una meccanica paziente che sgrana le differenti tappe dell’erotismo. Sotto il sole di un’estate italiana o sulla terra rossa di un campo da tennis, coreografa i corpi e osserva come reagiscono se esposti a troppo amore. Implodono. In coppia o ai vertici di un triangolo, sono spinti al massimo splendore e niente si oppone al loro destino, procurando un piacere immenso allo spettatore che ha bisogno di opere che dicano quanto perdutamente possano amarsi i corpi. Che si tratti di una coppia gay o dei desideri fluidi di una banda di adolescenti, Guadagnino non mette mai ostacoli o carnefici sul cammino dei suoi personaggi. “Siamo quello che siamo”, borghesi, omosessuali, bisessuali, mostri, cannibali, le sue storie trasmettono un’(auto)evidenza che non è mai intesa come un furioso grido di protesta. Perché il suo motivo dominante non è mai l’intolleranza ma la scoperta di sé, che misura sempre sul territorio della passione. Siamo fatti della stessa materia dei sogni, ma per lui siamo fatti soprattutto di desideri, siamo il risultato delle nostre emozioni. E allora filma scalate sensuali dove gli sguardi, le parole e i silenzi sono mani tese verso l’altro.
Il suo è un cinema di tesori nascosti, sul fondo di acque blu o nelle pagine di un libro polveroso, dove la bellezza resiste in attesa che i più sensibili la colgano. Non fa nessuna morale Luca Guadagnino e offre una sola bussola per il cammino: l’elevazione attraverso la conoscenza. E il cinema ha qualcosa in comune con la conoscenza, incoraggia a guardare in alto. In quel viaggio iniziatico, solitario ma necessario, non vediamo più solamente il personaggio ma la sua personalità, che non domanda altro che essere illuminata. We Are Who We are titola la sua mini-serie sull’adolescenza, rigurgitante di formule definitive nonostante l’indeterminatezza dei desideri che descrive e inscrive in una genealogia cinematografica conosciuta. Guadagnino resuscita i fantasmi del cinema italiano, facendo della sua morte a Venezia un film solare e del suo Suspiria un simulacro dell’originale, un falso tradimento che ci libera dalle madri onnipotenti che impongono identità e desideri.
Ma questo sovraccarico di riferimenti è un passaggio necessario nella ricerca di libertà che Luca Guadagnino condivide coi suoi giovani protagonisti, appesi a labbra che divorano (Bones and All) o in bilico sulle racchette (Challengers). Viaggia nella terra del cinema, al servizio del desiderio, lontano dalla pura italianità, in più lingue, con attori di diverse nazionalità e personaggi con background di mille colori, sollevati da vincoli materiale e completamente liberi di consacrarsi alle cose dello spirito o della carne. Tutti sfuggono ai diktat, per l’esistenza che si apre all’improvviso, per un bagliore, per la parentesi narrativa del film.
Nel suo gesto creativo c’è qualcosa di Bertolucci, di Visconti, di Zurlini. C’è l’amore per l’arte che va oltre il cinema e coinvolge anche la musica e la letteratura. Cita per amore, per tramandare, per cercare nel lirismo di un altro lo slancio che gli permetta di fare i conti con quello che è. E il suo ultimo complesso movimento di appropriazione si chiama Challengers e sembra improntato al mélo hollywoodiano. Tutto il suo “folle amore lo soffia il vento”, come la voce di Modugno che incontra Pasolini, come una sequenza che incontra due amanti nel parcheggio. Tra il principe (Josh O’Connor) e il ballerino (Mike Faist), il film accomoda Zendaya e gioca a tre una partita che prevede il singolo o il doppio. Ma qui non c’è mai due senza tre. I sentimenti occupano di nuovo tutto lo spazio, sono un ‘rimbalzo alto’ perché Guadagnino non cerca la bella immagine ma l’esperienza della vita.