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“Winners, è un film che mi sta molto a cuore, un progetto che ha una profonda connessione con la mia gioventù: è la mia storia, la storia di bambino che amava il cinema. E penso che questa sia l’età migliore per realizzare questo film. Nasceva dalla volontà di creare connessioni estetiche tra la cultura occidentale e quella iraniana combinandole insieme in un messaggio universale. Volevo anche celebrare i registi iraniani che hanno rappresentato per me un’ispirazione come Panahi, Kiarostami e molti altri”.
Hassan Nazer, regista iraniano ma attivo in Scozia da quasi vent’anni, ha presentato al Bif&st 2023 il suo Winners, nella sezione Panorama Internazionale. Dedicato a Jafar Panahi, suo collega e connazionale ancora agli arresti domiciliari, è stato candidato dal Regno Unito come miglior film straniero agli Oscar 2022. Ma la storia, dalla forte impronta autobiografica, non parla solo di cinema: “Con questo film volevo discutere anche tematiche sociali: come per esempio la vita dei rifugiati afgani in Iran, che è parecchio complicata. Tutti questi elementi sono tessuti insieme perché volevo essere d’aiuto per l’Iran”.
Nazzer si è soffermato anche sui suoi suoi rapporti con i vari registi iraniani rimasti in patria, costretti spesso a girare tra mille difficoltà, Panahi in testa: “non sono in contatto con tutti, ma con molti sì e sono consapevole della difficile situazione. Sono in contatto per esempio con il figlio di Kiarostami, che porta avanti l’eredità di questa icona: anche lui è un attivista. Il mio film è dedicato a Panahi: volevo tanto che lo vedesse prima dell’uscita ufficiale. Gliel’ho mandato, anche per avere magari qualche consiglio su come montarlo. C’era, però, tutta una questione burocratica di permessi da ottenere e non ha potuto rispondermi. Così, ho contattato indirettamente un amico, perché il contatto diretto poteva essere problematico, anche perché lui è rappresentato all’interno del film”.
Il film è, tra le altre cose, uno spaccato sociale di un Iran a due velocità. Un parte ultratecnologica, occidentalizzata e iperconnessa, l’altro rurale e assolutamente indifferente a ciò che accade non solo nei confini nazionali, ma nel mondo. Sempre il regista: “il paradosso che si vede nel film esiste veramente: le location dove abbiamo girato sono a cinquanta minuti dalla capitale Teheran, il posto più moderno e contemporaneo dell’Iran. Per dare un’idea: mio nonno quando stavo girando, è venuto da me per chiedermi: ‘cos’è questa statua d’oro con cui stai girando?’ Non sapeva cosa fosse un premio Oscar. Anche chi vive a poca distanza dalla città molte volte non ha idea di cosa accade nel paese o nel mondo. Proprio su questo contrasto sto scrivendo un altro film: molti sono legati alle tradizioni, e non hanno idea dei problemi sociali che sta attraversando l’Iran, come delle proteste delle donne. Questa mancanza di accessibilità ha sicuramente a che fare con le tradizioni, ma anche con il fatto che molti iraniani non hanno accesso ai social media, alla comunicazione digitale, alle televisioni, perché spesso non vogliono farlo, non voglio aggiornarsi e nessuno può forzarli a farlo: e penso che in fondo sia anche giusto così”.