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Touch of Crude di Nicolas Winding Refn
Da quando Walter Benjamin ha scritto L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica è diventato chiaro agli studiosi di tutti i campi del sapere che ogni epoca della storia umana possiede un paradigma di espressione, un modello visivo, una modalità di comunicazione spesso compressa in un’immagine sintomatica. Secondo il teorico tedesco l’immagine paradigmatica del nascente secolo breve era quella cinematografica, per la sua capacità di specchiare l’effetto percettivo provocato delle nuove tecnologie industriali.
Questa stessa immagine non era però comparsa nelle abitudini di fruizione all’improvviso, il suo arrivo gradualmente annunciato da un’altra immagine, altrettanto paradigmatica, e cioè quella fotografica. Anche André Bazin era di quest’idea e pensava alle due dimensioni espressive come a fasi genealogiche di una stessa configurazione visiva, nata in realtà nel Quattrocento con la prospettiva brunelleschiana e probabilmente destinata a futuri impossibili da preconizzare. Ora che il nostro presente è simile al futuro che Bazin trovava inimmaginabile, è legittimo chiedersi quale sia l’immagine paradigmatica di questo tempo, e soprattutto se essa si ponga in una linea di continuità con il nostro passato.
L’operazione però non è forse più possibile. Dopo il postmoderno – periodo di fine delle grandi narrazioni (si veda a proposito Lyotard) - nessun termine sembra davvero più in grado di ri-mediare le nuove condizioni di esistenza in un modello onnicomprensivo. Jacques Aumont, per esempio, in Que reste-t-il du cinéma? proponeva di considerare come sintomatiche le immagini in grado di esprimere le linee di costruzione di ogni momento storico, e cioè quelle dell’identità soggettiva e del tempo. Lui poneva l’attenzione sull’immagine pausa, strana concrezione audiovisuale prodotta dalla possibilità di interrompere con le proprie dita il flusso digitale a metà del proprio movimento. In questa sede se ne propongono invece altre due: l’immagine della moda e l’immagine algoritmica.
Apparentemente irrelate tra loro, l’immagine della moda e l’immagine algoritmica sono descrivibili come paradigmi visivi congiunti, sintomi dell’ingresso del nuovo capitalismo postindustriale nella relazione tra soggetto senza identità ideologica e tempo senza apparente direzione teleologica. Operano allo stesso modo, approfittando della scomparsa delle grandi narrazioni - e cioè delle ultime forme di controllo e costruzione dell’identità - per formattare e manipolare i profili individuali. Non più tanto a favore di una narrazione quanto di una logica, quell’appunto del capitale sopra menzionato, che si vuole irriflessiva e si presenta come realtà naturale e trans-storica.
Se la moda in fondo era già questo - una cornice di senso minima offerta dal capitale per l’identità di un tempo senza più cornici, vero e proprio linguaggio in grado di assicurare al soggetto una continuità identitaria compromissoria, lunga una stagione -, il paradigma dell’immagine della moda, sempre più presente nel linguaggio audiovisivo e nella fruizione quotidiana, si conforma alle sue caratteristiche storiche predigitali della sua matrice fisica presentandosi come un modello di formattazione dell’identità a breve termine. Modello che non può operare fisicamente, vestendo per esempio il soggetto, ma può offrire all’occhio lo stesso tipo di esperienza consolatoria: l’esperienza del mondo come fenomeno estetico, o meglio estetizzante. E cioè stilizzato.
Sollecitando l’esperienza del mondo attraverso lo stile e cioè sospendendo il mondo stesso in una dimensione di artificio e controllo in cui il contenuto delle cose è neutralizzato dal dominio della superficie, l’immagine della moda interviene sullo scollamento tra identità e tempo con un ottimista sostegno a breve termine (quella che chiamiamo stilizzazione). Che aspetta poi di essere rilanciato dall’immagine algoritmica. È per dare continuità a questa azione del capitalismo digitalizzato e postmoderno che l’immagine algoritmica, infatti, raccoglie il testimone dell’immagine della moda.
Lo si può vedere in qualsiasi punto dell’audiovisivo mediale dove gli algoritmi predittivi organizzano i contenuti visuali per rilanciare il disorientamento dell’identità in percorsi di gusto controllato e predefinito. Basta accendere Netflix, ma anche Amazon Prime, Paramount+, AppleTv+ o Disney+ per riconoscere come l’elevato esponente di stilizzazione dei “prodotti offerti” dalle piattaforme sia il Cavallo di Troia costruito per manipolare il disorientamento dello sguardo e allo stesso tempo dirigerlo in percorsi preconfezionati tendenti alla ratifica e alla conferma delle proprie scelte. Che ruolo ha il cinema rispetto a questi due paradigmi visuali contemporanei?
La risposta è da cercare dove il cinema sembra essere più debole e a servizio, e cioè nei cosiddetti fashion film, ibride forme di iterazione capitalistica tra cinema e griffe, di solito commissionate da case e marchi a grandi registi. In questi film, in cui i mezzi produttivi cinematografici sono spesi per portare alla massima definizione il paradigma dell’immagine della moda, una patinatura smagliante opera alla massima potenza nella direzione verso cui operava il Camp secondo Susan Sontag, e cioè mettendo tra virgolette ogni oggetto, ogni figura del reale, per assicurare allo sguardo un facile appiglio di senso oltre l’ambiguità di una realtà al collasso. Potrebbe sembrare quindi che nell’intensificazione della superficie non ci sia spazio per la rimediazione critica che sempre da Benjamin in poi è stata teorizzata come l’azione principe del cinema. Eppure, proprio al crocevia tra un algoritmo e una commissione griffata, qualcosa di riflessivo si muove.
Nel fashion film diretto da Nicolas Winding Refn per Prada, Touch of Crude, l’immagine cinematografica si mostra per esempio ancora capace di piegare i paradigmi audiovisivi contemporanei a favore di un’elaborazione critica. Attraverso la storia di una scatola nera (un monolite kubrickiano, una box lynchana) che viaggia tra una serie di stanze e universi differenti e cambia lo sguardo di tre donne imprigionate nelle dimensioni della moda e delle duplicazioni algoritmiche, Refn istanzia il cinema come una navicella in transito, o meglio, come un connettore, un catalizzatore o anche un non luogo, uno spazio vuoto pensato per l’incontro di immagini di tipo differente. E illustra la possibilità di considerare il linguaggio cinematografico non tanto come la negazione dell’intervallo tra le immagini del contemporaneo, ma come una loro proiezione virtuale. In grado di generare consapevolezza politica sul progressivo scollamento tra diversi tipi di paradigmi alla fine delle grandi narrazioni e assieme risuturare lo scollamento tra forma e contenuto nascosto in ogni stilizzazione.