L’avventurosa storia del cinema italiano – così la chiamarono Franca Faldini e Goffredo Fofi in una serie di leggendari volumi di storia orale – non finisce mai di stupire. Lo dimostra la vicenda umana e professionale di Italo Zingarelli, cinematografaro tout court, che rivive al Lecco Film Fest grazie al figlio Sergio, oggi titolare di Rocca delle Macìe, una delle più importanti cantine del Chianti Classico, il business che il papà Italo abbracciò dopo aver abbandonato il grande schermo.

“Papà ha avuto molte vite” racconta Sergio, ospite del festival organizzato da Fondazione Ente dello Spettacolo e promosso da Confindustria Lecco e Sondrio: “Suo padre e suo fratello morirono quando lui era piccolo. Diventò pugile, aveva un corpo imponente: si distrasse un attimo, l’avversario gli diede un colpo fatale e lui cadde a terra. Quel KO gli cambiò la vita, lo ricordava come uno dei suoi momenti peggiori”.

Nella Roma del dopoguerra, come tantissimi giovani desiderosi di svoltare e bisognosi di mangiare, il ventenne Zingarelli si diede al cinema: “Iniziò come stuntman per Quo vadis?, il grande kolossal americano che fu girato a Cinecittà nel 1950. E poi, alla fine del decennio, incontrò una signora spagnola, Natividad Zaro, moglie di Eugenio Montes, un uomo di cultura che poi divenne direttore dell’Istituto Spagnolo a Roma. Fu lei, ex attrice e sceneggiatrice, a coinvolgerlo nella produzione di Le legioni di Cleopatra”.

Da lì cominciò una carriera notevole, tra spaghetti western e la comicità di Franco e Ciccio, incardinata sulla “leggerezza del vivere”, con l’intuito dei vecchi produttori: “Un giorno si ritrovò in una tappa del Cantagiro, un festival itinerante degli anni Sessanta, ascoltò un cantante e capì subito che aveva qualcosa: era Little Tony, lo arruolò subito e insieme fecero i musicarelli Riderà (Cuore matto)”.

La grande svolta, tuttavia, è datata 1970: “Papà realizzò il western Un esercito di 5 uomini, sia da produttore che come regista. La sceneggiatura era di Dario Argento. Il direttore della fotografia era Enzo Barboni: aveva scritto una storia ma nessuno era disposto a produrla. Mio padre la lesse e suggerì di mettere al centro una coppia di protagonisti anziché un solo personaggio. Dopo molti rifiuti, ecco l’intuizione: mettere insieme Terence Hill e un attore che papà aveva diretto nell’Esercito, Bud Spencer. Così nacque Lo chiamavano Trinità...”. Film che divenne tra i più redditizi della storia del cinema italiano: “Ne fecero subito il sequel, che andò anche meglio. Poi smontarono il secondo e ridistribuirono il primo, incassando una cifra oggi impensabile”. Proprio quel cult è stato proiettato al Lecco Film Fest, sul grande schermo del Cinema Nuovo Aquilone.

Dopo Trinità, Zingarelli tornò a lavorare con Spencer e Hill in …più forte ragazzi! e Io sto con gli ippopotami e contribuì al capolavoro C’eravamo tanto amati, ma ben presto lasciò il cinema per dedicarsi al vino, fondando Rocca delle Macìe.

“Zingarelli è un uomo che ha attraversato il Novecento avendo la famiglia come faro – riflette mons. Davide Milani, presidente della Fondazione Ente dello Spettacolo – e ha dato un nuovo significato a un genere glorioso. Ha creato il ‘fagioli western’ per fare la parodia della violenza, parlando delle cose della vita: la fame, l’amore, le donne da conquistare, i fratelli che devono ricongiungersi. Ma di Zingarelli vorrei celebrare anche le battaglie nell’industria: come quella contro il rincaro dei biglietti. Era convinto che il cinema dovesse essere popolare e sostenibile”.