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Roberto Benigni (Webphoto)
Siamo negli anni del dopoguerra e il cinema italiano vive la sua stagione più gloriosa (poi diventato, come ha scritto qualcuno, il nostro “vestito buono” da indossare nelle occasioni speciali): il neorealismo. Gli americani impazziscono e l’Academy, nel 1948, decide di assegnare un “premio speciale al miglior film straniero” (cioè non parlato in inglese): vince Sciuscià di Vittorio De Sica, che bissa il successo nel 1950 con Ladri di biciclette. Un anno dopo, l’Oscar va a Le mura di Malapaga, coproduzione con la Francia diretta da René Clément.
Solo nel 1957 l’Academy istituisce una categoria competitiva, delegando ai comitati locali la designazione di un titolo per nazione, da sottoporre successivamente alla votazione dell’Academy stessa. Vince subito un italiano, La strada di Federico Fellini, destinato a diventare un beniamino degli americani. Tant’è che nel 1958 segna la doppietta con Le notti di Cabiria. Fellini è l’autore italiano che è stato designato più volte per la corsa all’Oscar, ben sette, con altre due vittorie nel 1964 con 8½ e nel 1975 con Amarcord, mentre negli altri casi viene solo selezionato e non candidato: Fellini Satyricon nel 1970, per cui comunque ottiene la nomination come miglior regista un anno dopo (c’entra il regolamento dell’epoca, per questioni legate alle uscite nelle sale statunitensi), Roma nel 1973, E la nave va nel 1984.
i numeri
Nel corso delle ultime sessantasei edizioni, il cinema italiano ha registrato 11 vittorie su 29 candidature. Siamo i primatisti della categoria: la Francia, che ci sta dietro, ha trasformato le sue 38 nomination in 9 Oscar (più 3 speciali). Seguono, con 4 premi, Spagna, Russia, Danimarca e Germania, mentre il Giappone ha 2 Oscar più 3 speciali. Tra il 1957 e il 1982 abbiamo vinto 8 statuette, mancando le candidature solo in cinque occasioni, mentre dal 1988 a oggi abbiamo ottenuto 4 premi e 9 nomination (naturale: si allarga il mercato ed entrano in gioco altre nazioni). Per almeno venticinque anni la presenza italiana è sempre stata costante e tra il 1973 e il 1980 un nostro film è sempre entrato in cinquina. E, appunto non banale, due capolavori che hanno vinto degli Oscar come La dolce vita (quattro candidature e un premio per i costumi nel 1962) e Divorzio all’italiana (tre nomination e una statuetta per la sceneggiatura nel 1963) non sono stati proposti all’Academy dal comitato nazionale: hanno fatto campagne elettorali a sé, certo in un’epoca d’oro in cui il cinema italiano poteva permettersi di tutto.


Federico Fellini e Marcello Mastroianni sul set di 8½ con Sophia Loren © ISTITUTO LUCE (Webphoto)
vincitori...
Dopo Fellini, il regista italiano più premiato è Vittorio De Sica, già vincitore dei due Oscar speciali e poi di altri due competitivi per Ieri, oggi, domani (1964) e Il giardino dei Finzi Contini (1972), più una candidatura per Matrimonio all’italiana (1965: lo star power di Sophia Loren e Marcello Mastroianni era all’apice).
Gli altri vincitori, a parte il caso Elio Petri, premiato a sorpresa nel 1971 con Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, hanno in comune alcuni elementi, su tutti il racconto di un’Italia sospesa tra ruralità e progresso e la visione di un passato mitizzato, non immune a certi rischi oleografici. Ognuno, poi, ci mette il suo: Giuseppe Tornatore per Nuovo cinema Paradiso scalda i cuori tra cinefilia popolare e sorridente epica (1990); Gabriele Salvatores rinsalda la mitologia degli “italiani brava gente” in paesaggi spettacolari con la commedia bellica Mediterraneo (1992); Roberto Benigni trova l’umorismo nella tragedia con La vita è bella (e il sostegno della comunità ebraica; ma soprattutto un padrino formidabile in Harvey Weinstein che, cogliendo la forza del film, lo lancia in pompa magna: sette nomination e altre due statuette per l’attore e la colonna sonora drammatica); Paolo Sorrentino cerca Fellini nella Roma monumentalizzata e degradata, stuzzicando l’Academy che forse configura La grande bellezza in modo diverso rispetto al nostro (2014).


Paolo Sorrentino (foto di Karen Di Paola)
...e vinti
Il record negativo tocca a Mario Monicelli, candidato vanamente per quattro volte: I soliti ignoti (1959), La grande guerra (1960), La ragazza con la pistola (1969) e I nuovi mostri (1979). Candidatura, quest’ultima, condivisa con Ettore Scola e Dino Risi, altri registi che hanno mancato l’appuntamento con l’Oscar: il primo l’ha sfiorato nel 1978 con Una giornata particolare e nel 1988 con La famiglia (ma nel 1984 era in cinquina con Ballando ballando, presentato dall’Algeria, quindi anche lui ha avuto quattro candidature); il secondo è stato nominato nel 1976 per Profumo di donna (anno in cui ottiene anche la candidatura per la sceneggiatura).
bene, bravo, bis
Il comitato italiano tende spesso a selezionare un film diretto da un regista già vincitore: è il caso di Tornatore, selezionato ben cinque volte, arrivato a un’altra candidatura solo con L’uomo delle stelle (1996) e finito nella short-list con La sconosciuta (2007); di Benigni, che dopo i fasti del 1999 ha fallito con Pinocchio nel 2003; di Salvatores, proposto senza esiti nel 2004 con Io non ho paura; e di Sorrentino, in cinquina nel 2021 con È stata la mano di Dio (ma anche di Netflix).
Caso a parte quello di Lina Wertmüller, prima donna candidata per la regia nell’anno in cui il suo Pasqualino Settebellezze era in gara tra i film stranieri: l’Italia la ripropose nel 1987 con Notte d’estate con profilo greco, occhi a mandorla e odore di basilico, non proprio un capolavoro. Discorso analogo vale per Nanni Loy (candidato nel 1963 con Le quattro giornate di Napoli e selezionato nel 1985 con il napoletano Mi manda Picone), per lo stesso Scola (Maccheroni nel 1986, curiosamente un’altra storia napoletana, con Jack Lemmon ex soldato americano che torna nella città in cui era stato in guerra) e per Gianni Amelio (nominato nel 1991 con Porte aperte e poi proposto nel 1993 con Il ladro di bambini, nel 1995 con Lamerica e nel 2005 con Le chiavi di casa: mai più passato).


Lina Wertmüller sul set (Webphoto)
one shot
A suo modo, Gillo Pontecorvo ha una media invidiabile: cinque film diretti e due candidature ottenute, nel 1961 con Kapò e nel 1967 per La battaglia di Algeri (l’anno dopo corse anche per la miglior regia). Altri registi nominati sono Franco Brusati (Dimenticare Venezia nel 1980), Francesco Rosi (Tre fratelli nel 1982), Cristina Comencini (La bestia nel cuore nel 2006, curiosamente una scelta di ripiego: la prima, Private di Saverio Costanzo, non possedeva tutti i requisiti poiché non girato neanche parzialmente in lingua italiana): tutti film che hanno a che fare con segreti di famiglia (incesti, tradimenti, rivelazioni...) e luoghi riconoscibili (la campagna veneta, l’entroterra pugliese, le case della borghesia romana).
italia? no, grazie
Per tre volte ci ha provato Marco Bellocchio, senza mai entrare in cinquina: nel 1968, reduce da I pugni in tasca, con la commedia ribelle La Cina è vicina; nel 1981 con Salto nel vuoto, che aveva ricevuto due premi a Cannes; e nel 2020 con Il traditore, cavalcando il filone mafioso e la riconoscibilità di Pierfrancesco Favino. E anche Matteo Garrone, appena designato dal comitato dell’ANICA con Io capitano e già selezionato nel 2009 con Gomorra (che effettivamente era in rampa di lancio) e dieci anni dopo con il meno spiazzante ma altrettanto solido Dogman.


Due tentativi andati a vuoto anche per Paolo e Vittorio Taviani: nel 1983 con il successo internazionale La notte di San Lorenzo (temi cari all’Academy: la guerra, i bambini, il realismo magico) e trent’anni dopo con Cesare deve morire, forte dell’Orso d’Oro e dell’operazione socio-culturale (il lavoro con i detenuti). Idem per Emanuele Crialese, proposto nel 2007 con Nuovomondo e nel 2012 con Terraferma, entrambi premiati a Venezia; Paolo Virzì, nel 2011 con l’iper-italiano La prima cosa bella e nel 2015 con Il capitale umano, versione nostrana di un romanzo americano; Gianfranco Rosi, nel 2017 con Fuocoammare tra i malumori di Sorrentino, in quell’anno membro del comitato dell’ANICA (“un inutile, masochistico depotenziamento del cinema italiano che quest’anno poteva portare agli Oscar un film di finzione e un documentario che può concorrere e vincere”: infatti lo troviamo candidato come miglior documentario), e nel 2021 con Notturno.
Ed è lunga la lista dei registi selezionati una volta senza ottenere la nomination, a partire da Michelangelo Antonioni, proposto nel 1962 con La notte (ma cinque anni dopo sfiora le statuette per regia e sceneggiatura di Blow-up e nel 1995 riceve l’Oscar alla carriera). Il paese di Wertmüller ha lanciato altre due donne con due film fuori dagli schemi ovvero Francesca Archibugi (la psichiatria infantile de Il grande cocomero, 1994) e Wilma Labate (i conti con gli anni di piombo in La mia generazione, 1997). Meno fortunati gli “autori”; Nanni Moretti, selezionato solo nel 2002, complice la Palma d’Oro, per La stanza del figlio; Pupi Avati, in corsa nel 1998 con il calligrafico Il testimone dello sposo; Marco Tullio Giordana, proposto nel 2001 per il biopic civile I cento passi; Mario Martone, scelto l’anno scorso con Nostalgia.
Ogni tanto c’è qualche scommessa: nel 2016 il comitato dell’ANICA ha puntato sull’outsider totale Claudio Caligari, già scomparso, con Non essere cattivo, due anni dopo mise le fishes sulla “sensation” Jonas Carpignano con A Ciambra, benedetto da Martin Scorsese. In fondo, tentar non nuoce. Ma la corsa all’Oscar per il film internazionale ha regole tutte sue, a volte sfuggenti. Certo, contare su una distribuzione statunitense (Rapito e La chimera, per esempio, ce l’hanno già, e così altri titoli forti delle altre nazioni), aver montato l’hype per qualche mese (la Mostra di Venezia non sembra funzionare quanto funziona per i film delle categorie principali: provate a vedere quanti “film stranieri” dal 2013 arrivano dal Lido – spoiler: 7 su 50, con una sola vittoria grazie Roma, mentre Cannes ne vanta 27 su 50 e ben 6 vincitori, cioè Amour, La grande bellezza, Il cliente, Parasite, Drive my Car più il “label” Un altro giro), essere capaci di penetrare nelle comunità elettrici (la diplomazia e la politica servono), ecco, sono buoni punti di partenza, diciamo.