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Potremo mai capire i conflitti che stanno insanguinando il mondo solo affidandoci a quei lacerti di reale rappresentati dalle immagini provenienti dai teatri di guerra che telegiornali e media digitali riversano su di noi?
È davvero una conquista poter vedere così – come se quelli di tv e social fossero i nostri occhi – ciò che capita per ritenere di essere nelle condizioni di un giudizio che pensiamo equilibrato, perché ci illudiamo di aver visto la presunta “realtà dei fatti”?
Il procedimento è molto usato in questi tempi: il video drammatico di pochi secondi che ci mostra un gesto di un presunto assassino e lo trasforma in colpevole, imponendoci una versione di quanto accaduto. Oppure quella foto emblematica di una catastrofe, scelta come sintesi di un evento immane che ci commuove, ma che sposta l’attenzione su quel particolare utile alla causa di un’opinione, lontano dalla comprensione del fenomeno.
L’arbitrarietà della scelta di questi ed altri frammenti quali icone sintetiche della realtà, non è solo questione di format, di esigenze di sintesi, di grammatiche di nuovi media perché porta con sé la riflessione sulla possibilità del racconto del reale mediante le immagini, proprio nell'epoca definita come “la civiltà delle immagini”.
Considerazioni aggravate dalla possibilità di produrne di verosimili mediante la cosiddetta intelligenza artificiale, potenzialmente abile a distorcere il senso di un evento per raccontare un’altra storia.
“Dittatura dell’immagine”: l’espressione, ormai comune, è di rara efficacia ed oggi offre almeno due possibili direzioni di significato. Anzitutto l’immagine ha il potere di soverchiare il reale, costringendolo in una rappresentazione assai limitata; inoltre, l’uso strumentale e consapevole di alcune immagini nella comunicazione pubblica, permette a soggetti o centri di potere, di imporre unilateralmente una visione pregiudiziale di quanto accade, una verità.
La violenza di questa dittatura è particolarmente evidente mediante la possibilità che si ha, con l’uso capzioso dell’immagine, di impossessarsi della realtà riducendola ad un frame che è per forza sintesi arbitraria: il reale, infatti, domanda come modalità per stargli di fronte una relazione con esso, l’accoglienza del senso che custodisce e la disponibilità a lasciarsene guidare. Le questioni sollevate dal rapporto immagine-realtà non sono però preoccupazioni solo di oggi, ma soggetto di un dibattito antico quanto il mondo. Era assai lucido – oltre due millenni fa – Platone che nell’avanzare riflessioni critiche sul processo della scrittura, denunciava una possibile deriva: “Né tu offri vera sapienza ai tuoi scolari, ma ne dai solo l’apparenza perché essi, grazie a te, potendo avere notizie di molte cose senza averne avuto insegnamento, si crederanno d’essere dottissimi, ma per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni invece che di conoscenze”.
Secondo il filosofo greco la scrittura consentirebbe agli allievi di avere notizie di cose di cui non hanno realmente conoscenza perché mai ascoltate dalla viva voce del maestro, lette magari in solitudine, altrove, senza insegnamento.
“Questo pharmakon non è forse un regalo avvelenato?”, si domanderà poi Jacques Derrida in La farmacia di Platone. Non sono regali avvelenati anche le immagini di oggi, che consumiamo avidamente sugli smartphone senza “un maestro”, senza “un insegnamento”? Ancor prima, nel V secolo avanti Cristo, il libro biblico di Esodo imponeva al popolo di Israele il divieto delle immagini: “Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra” (Es 20,4).
Il pericolo da cui stare in guardia era quello dell’idolatria che ne conseguiva, come spiegano le righe successive dal medesimo testo: “Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai” (Es 20,5).
Gesù Cristo, colui che era chiamato per la potenza dei suoi insegnamenti il “maestro”, abbatterà con la sua vicenda questo divieto, come testimonia San Paolo che lo definisce l’immagine del Dio invisibile” (Col 1,15).
Dio non è possibile possederlo nell’immagine, altrimenti diventa idolo, ma è “visibile” autenticamente solo nella relazione con il Maestro di Nazareth, nell’incontro con la sua storia, la sua vita e i suoi insegnamenti. La parzialità delle singole immagini, fruite senza relazione con ciò che vorrebbero rappresentare, divengono “idolo”, e gli idoli non sono nient’altro che la proiezione di noi stessi, di nostri giudizi, non certo la possibilità di accedere al senso delle cose. Mi appaiono eccessivamente vezzosi quei registi che lasciano che ci si rivolga a loro con il titolo di “maestro”.
Ma forse è tempo di rivalutare il titolo: proprio chi più di altri è sapiente nell’esercizio dell’arte cinematografica – e quindi “magis”, “maestro” – ci può salvare dalla schiavitù imposta dalla dittatura dell’immagine.
Perché si assume la responsabilità di essere intermediario tra noi e gli accadimenti del reale, lasciandosi attraversare da quanto capita per incontrare la propria esperienza e tradurre quanto osservato in una narrazione, offerta poi all’accoglienza dello spettatore.
Ecco quindi la potenza del cinema d’autore come via per conoscere il reale, come ci ha testimoniato Agnieszka Holland in apertura del nostro festival, Tertio Millennio, in cui ha orgogliosamente portato il suo ultimo film Green Border.
Per raccontare un dramma immenso e planetario come quello delle migrazioni ha pagato un prezzo (quante avversità politiche…) impegnando la propria persona, la propria arte, la propria visione del mondo, per immergersi – oltre la parzialità delle singole immagini – nella realtà laddove accadeva, per poterla raccontare a noi, interpellandoci con la sua testimonianza narrativa.
Il cinema dei maestri questo provoca: ci libera e ci libererà dalla dittatura: dell’immagine e di chi la usa per imporre ideologie.