Vince The Room Next Door, vince Pedro Almodóvar Caballero, secondo regista spagnolo a fregiarsi del Leone d'Oro dopo Bunuel con Belle du jour nel 1967.

Il trionfo in Sala Grande è geopolitico, festivalmente parlando: il corteggiamento geometrico, metodico, inesorabile del direttore artistico Alberto Barbera ha traghettato, per altri Lidi, per altri mari, Almodóvar da Cannes, di cui è stato habitué di lusso, ovvero al pari di Moretti primus inter pares potendo allocare in Concorso i film già usciti in patria, a Venezia, con uno scacco matto in quattro mosse, prima il Leone d'Oro alla carriera nel 2019, poi il corto The Human Voice con Tilda Swinton nel 2020, Madres paralelas, apertura fiacca nel 2021. The Room Next Door altro non poteva che vincere, usando con l'inedita lingua inglese Venezia quale trampolino per l'award season come un titolo hollywoodiano qualsiasi.

Orfana di Netflix, e dunque equiparabile a Cannes, Venezia si prende la "rivincita" sui galletti, e il capo galletto Thierry Fremaux, sottraendo Pedro alla sciovinista politique des auteurs e facendone, ehm cosa nostra.

Non è un capolavoro, per carità, ma il paso doble della terminale, e assai brava, Swinton e della lacrimevole ancella Julianne Moore, con gli occhi zuppi da testa a coda, da mane a sera, garantirà alla Laguna un posto al sole nei mesi a venire tra nomination e premi. Uscirà il 5 dicembre nelle nostre sale, approcciando le Feste col tema ultrasensibile dell'eutanasia: "Dire addio a questo mondo in modo pulito e con dignità è un diritto fondamentale, non è politico ma umano. So – ha dichiarato il 74enne regista ricevendo il Leone – che va contro ogni credo che intende Dio come unica fonte di vita, ma chiedo ai praticanti di rispettare e non intervenire nelle decisioni individuali. Lessere umano deve essere libero di vivere e di morire quando la vita è insopportabile", e buon Natale.

L'ha issato ai massimi allori la Giuria presieduta da Isabelle Huppert, che al contempo ha potuto eludere la Coppa Volpi a Swinton e Moore per la meno concorrenziale Nicole Kidman, tutta sesso, sadomaso, e potere, economico, nel sottovalutatissimo Babygirl: anche la diva australiana, che ha disatteso la cerimonia per la morte della madre, prenota un posto in cinquina a Oscar et alia, forte di una prova indomita e disinibita da donna intelligente quale è. Si tiene dietro non solo la Fernanda Torres di Walter Sales, che si distingue per la sceneggiatura col ritratto in interni di una famiglia borghese - e desaparecida - di I'm Still Here, ma anche la Angelina Jolie che se la "canta" in Maria (Callas): inoppugnabile.

Sul fronte attoriale maschile – Huppert è pur sempre francese - la Coppa Volpi a Vincent Lindon per Jouer avec le feu e il Mastroianni a Paul Kircher per Leurs enfants après eux, il primo diretto da due sorelle, il secondo da due fratelli, sicché di rientro a Paris Isabelle potrà dire di aver premiato di attori e quattro registi connazionali.

Lindon la spunta sul Joker Joaquin Phoenix, il Daniel Craig - e ci mancherebbe - di Queer e l'Adrien Brody brutalista chez Corbet, senza rubare nulla ma nemmeno entusiasmando.

Tra parentesi, il miglior film francese stava inopinatamente fuori dai giochi: Maldoror di Fabrice du Weltz, variazione su Marc Dutroux, il mostro di Marcinelle.

Il premio speciale della Giuria è per la georgiana che piace alla gente che piace Dea K'ulumbegashvili con April, che è invero un "pesce di" per quanto spacci vecchio per nuovo con un'alterigia insopportabile. Film artato più che d'arte, serve almeno a lenire la delusione di Luca Guadagnino, qui produttore, rimasto a bocca asciutta con Queer: non ci stracciamo le vesti, firmate che non siano le nostre, sia chiaro.

Brady Corbet con The Brutalist si porta in America il Leone d'Argento per la regia, e ci sta: pur suicidato dalle SS - leggi: stupro e sionismo - nella seconda parte, il dramma dell'architetto ebreo Brody, scampato all'Olocausto e prostrato dal capitalismo, ha la magniloquenza stilistica e la magnitudo poetica per farsi apprezzare.

Insomma, il verdetto patrocinato da Huppert è condivisibile: le esclusioni - e poi quali? - non sono motivo di scandalo, che nel palmares non vi sia manco l'ombra di un capolavoro è problema a monte - solo uno in Mostra, la serie M di Joe Wright dal bestseller di Antonio Scurati, che con più coraggioso discernimento Barbera avrebbe dovuto far competere.

Infine, due notizie: prima la cattiva, gli italiani per il Leone hanno trovato gradimento infimo presso la critica, internazionale e non, e senza alcuna sorpresa; poi la buona, ha fatto eccezione Vermiglio di Maura Delpero, vincitore di un sacrosanto Leone d'Argento, il quarto consecutivo che arride ai nostri colori, e segnatamente il Gran Premio della Giuria.

Bello, si fa per dire, osservare come nostrani critici rimasti tiepidini alla visione abbiano poi suonato la grancassa all'incoronazione: chiamiamola resipiscenza, va'.

Alla vigilia apparentato da Barbera all'olmiano Albero degli zoccoli, Vermiglio miscela in formato famiglia a due passi dal Passo del Tonale natura e cultura, naturalismo e antropologia in periodo bellico, senza mai farsi annullare il desiderio dalla necessità: sì, c'è virtù, e potrete bearvene dal 19 settembre in sala.