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Jafar Panahi (foto di Daniele Cifalà)
“Le immagini prendono posizione”, scriveva Georges Didi-Huberman, e Cannes 78 lo ha dimostrato. Un festival bello, atto politico ed esperienza sensoriale, conflitto aperto e memoria da ricomporre, laboratorio estetico e arena geopolitica. Uno spazio di tensione tra rappresentazione e realtà, dove l'immagine ha riscoperto la propria forza dialettica.
La Palma d’Oro assegnata a Jafar Panahi con Un simple accident non è soltanto un premio a un grande cineasta, ma il riconoscimento a un cinema di resistenza frontale, che rievoca il gesto pasoliniano del “gettare il corpo nella lotta”. Panahi, presente sulla Croisette dopo anni di esilio interno e prigionia, usa il cinema come arma di denuncia diretta, frontale, esplicita, abbandonando le metafore care al maestro Kiarostami per un discorso aperto contro l'oppressione. La sua Palma è un gesto geopolitico potente, come fu l'Oscar a Parasite, ma più esplicitamente dissidente. L’immagine si fa dunque corpo politico, “immagine-attivista”, strumento di denuncia in un cinema che evoca il rigore dialettico di Sergei Loznitsa (grande assente dal palmarès) e la forza emotiva di un Pasolini contemporaneo.
La memoria come conflitto: noir storico e autobiografismo radicale
Al cuore di Cannes 2025 c’è l’ossessione per il passato. La coscienza che il presente è l’esito di una sedimentazione di tracce, di reperti da riesumare. Kleber Mendonça Filho, premiato con il Prix de la mise en scène per O agente secreto, prosegue il percorso già tracciato da Bacurau e Aquarius, spingendolo verso una radicale riflessione sul cinema come memoria politica e collettiva. In apparenza thriller storico con echi tarantiniani, il film è invece un labirinto fatto di corpi senza nome, indizi sfuggenti, nastri audio ritrovati e cadaveri mai riconosciuti. È il Brasile della repressione, ma soprattutto dell’oblio istituzionalizzato, della memoria rimossa. Ma anche lucido e affettuoso madeleine privata, un tuffo nell’immaginario del passato (Lo squalo di Spielberg come medium simbolico tra cinema e vita, realtà e artificio), con cui Mendonça Filho trasforma il gesto cinematografico in una pratica quasi notarile, un’incisione indelebile contro l’invisibilità imposta dal potere: la verità non è ciò che si mostra, ma ciò che riemerge, ostinatamente, dal buio.


Allo stesso tempo, Joachim Trier (Sentimental Value, Grand Prix), Carla Simón (Romería) e Hafsia Herzi (La petite dernière, miglior attrice per Nadia Melliti) portano in scena un autobiografismo frammentato, archeologico, che ricorda il Truffaut di I 400 colpi – in un anno in cui la Nouvelle Vague è stata persino titolo eponimo in gara, per intercessione venerante di Linklater - scavano nella memoria familiare per ridefinire identità personali in crisi, attraverso una narrazione che mescola testimonianza e finzione. È un cinema che dialoga con il “documentario ibrido”, evocando l’idea di un cinema che non è più soltanto narrazione, ma anche archivio vivo del passato, tra realtà e finzione.
Sperimentazione rituale: da Tarkovskij a Lynch, nuove grammatiche visive
La premiazione ex aequo di Sirāt di Óliver Laxe e Sound of Falling di Mascha Schilinski è il segnale più forte di un rinnovato interesse per un cinema rituale, sensoriale, che rinuncia alla linearità per abbracciare strutture cerimoniali. Laxe richiama esplicitamente Tarkovskij e Béla Tarr, mescolando slow cinema e spiritualità islamica in una forma di sincretismo cinematografico inedito: l'immagine diventa "materia viva", liquida, una soglia verso l'invisibile. Schilinski, dal canto suo, mescola Bergman e Lynch con una sensibilità contemporanea post-digitale, creando un horror che è al tempo stesso tattile e metafisico. Entrambi i film mostrano come il cinema possa ancora aprire varchi sulla realtà, diventando una pratica rituale che sfida la saturazione digitale e restituisce un'esperienza fisica e spirituale.


Anche Resurrection di Bi Gan (Premio speciale) si inserisce in questa linea, ma con un'ambizione ancora più estrema: rifare visivamente, quasi materialmente, la storia stessa del cinema. Il regista cinese parte dal cinema delle origini, dal muto con intertitoli, evocando un mondo magico in cui lo spettatore è un sognatore puro, per poi attraversare gradualmente epoche e stili differenti – echi di Beckett, Cronenberg, Wong Kar-wai – fino ad arrivare a un finale devastante e straziante (generato dall’AI?), che riflette in modo spietato sulla nostra epoca.
Gli ultimi spettatori, figure spettrali illuminate da lucerne tremolanti, vengono lentamente inghiottiti nel nero assoluto di uno schermo sul quale campeggia, solitaria e definitiva, la scritta "The End". Una metafora del destino del cinema come atto onirico, espulso brutalmente dal mondo della realtà: una radicalità visiva che è insieme riflessione e disperata resistenza, sfida alla pervasività digitale e atto d’amore verso la materialità perduta dell’immagine.
Geopolitica del cinema: autorialità contro mercato globale
Sul fronte industriale, Cannes 2025 mostra una chiara polarizzazione: Neon conquista la sesta Palma d'Oro con Panahi, confermandosi leader di un'autorialità mainstream, mentre Mubi rilancia un nuovo modello distributivo digitale, ridefinendo l'idea stessa di "cinema d'essai". La Caméra d’Or al film iracheno The President’s Cake, annunciata da Alice Rohrwacher ("Abbiamo visto 28 porte sulla realtà"), apre al cinema marginale, evocando una tendenza postcoloniale (come avvenne per Atlantique di Mati Diop). Ma Cannes rimane anche un "laboratorio" ambivalente: da un lato apre a nuove cinematografie, dall’altro rischia di diventare un "zoo culturale", come temeva Glauber Rocha.


Tensione tra emozione e intellettualismo: il cinema necessario
La scelta di premiare i Dardenne (La maison maternelle, miglior sceneggiatura) piuttosto che Loznitsa indica una precisa direzione estetica: i Dardenne incarnano un cinema umanista ed emotivo (vicino a Rossellini e Bresson), mentre Loznitsa resta su una linea fredda, intellettuale, hanekiana. Cannes, forse rispondendo alla crisi post-pandemica, privilegia opere che mescolano accessibilità emotiva e urgenza politica, in quella che potremmo definire "estetica della radicalità": film che vogliono essere necessari, immediati, in grado di coinvolgere senza rinunciare alla complessità.
Cannes come varco tra reale e immaginario
In conclusione, Cannes 78 conferma che il cinema può essere simultaneamente tempio e trincea, luogo sacro della bellezza (come dice Mendonça Filho) e linea del fronte della resistenza politica (Panahi). È un cinema che riscopre Artaud nel corpo mutante di Julia Ducournau (Alpha) ma anche in quello conflittuale e spasmodico di Nadav Lapid (del feroce Yes, inopinatamente finito alla Quinzaine), un cinema che esplora la memoria storica come un archivio in continuo movimento, tra documentario e finzione (Brasile, Iran).
Un cinema che reagisce alla saturazione digitale del presente opponendo immagini forti, nette, capaci di aprire varchi e non semplici finestre sul mondo. In definitiva, Cannes ha riaffermato una verità potente e urgente: il cinema non è mai neutrale, ogni immagine è una scelta, un atto politico ed estetico. Se Rancière lo riteneva “il luogo dove le immagini pensano", allora Cannes ci ha ricordato che è anche lo spazio dove le immagini agiscono, resistono, salvano. Non solo festival, ma manifesto di sopravvivenza culturale: finché il cinema saprà essere conflitto, memoria, rituale e dissenso, avremo ancora un luogo dove l’umano può essere esplorato, celebrato, forse persino salvato.