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Black Panther (credits: webphoto)
Cos’è la destra, cos’è la sinistra. Era difficile capirlo già ai tempi di Gaber, figuriamoci nel mondo post-ideologico.
Ne sanno qualcosa i politici che ancora si ostinano a posizionare l’elettorato sulle ascisse e le ordinate di un asse che non esiste più.
Così capita che la classe operaia voti per i partiti conservatori e i ricchi della Silicon Valley scelgano i progressisti. Oppure, ed è il discorso che ci interessa, che gloriosi studios una volta tetragoni nel sostegno ai repubblicani si riciclino come avamposto dei progressisti, con le ragioni del conservatorismo affidate surrettiziamente all’indistinto attuale delle piattaforme e al mood di un’epoca che priva di un nemico si è riscoperta ancora più insicura.
Nessuno ricorda più come MGM, Warner o Disney siano stati nella Hollywood classica la dorsale ideologica del GOP, con il loro repertorio di storie rassicuranti, eroi-mitomaniaci, valori bianchi e pane e latte delle vecchie fattorie.
Sparite le eroine accasate e le principesse risolte dal bacio del principe azzurro – un ribaltamento di cui fu antesignana La sirenetta (1990), che da allegoria sulle conseguenze del cercare di essere ciò che non sei è diventata parabola sull’autodeterminazione - oggi quegli studios, Disney in testa, si riposizionano come gli agit-prop delle minoranze, fautori di una rivoluzione per immagini consanguinea ai wokismi che soffiano sulle piazze, mozzano le statue e agitano le università americane.
Black Panther si pone naturalmente tra gli alfieri di una stagione produttiva votata a piantare bandiere in un immaginario mobile, più molle che fluido, meno pervasivo e coriaceo di un tempo. Sicuramente più inclusivo e più rappresentativo, non tanto della società globale ma del globale nella società.
Il film che sposta il Marvel Cinematic Universe sulla questione razziale, ben oltre il perimetro finzionale di Wakanda , è del 2018. Esattamente un anno dopo la pubblicazione di uno studio della Annenberg Inclusion Initiative dell'Università della South California sulla presenza delle minoranze nei film americani di maggiore successo dell’ultimo decennio: ebbene, quello studio aveva rivelato come, a dispetto di una retorica “inclusivista” (appena l’anno prima la presidente dell'Academy, Cheryl Boone Isaacs, aveva annunciato la riforma a favore di donne e minoranze delle liste elettorali che decidono sugli Oscar), solo il 30,6% dei personaggi del campione era donna, meno dell'1% apparentabile alla comunità LGBT+. Quanto alle minoranze, in 43 film usciti nel 2017 erano assenti personaggi afroamericani o di colore e in 65 non compariva alcun asiatico o asio-americano.
Nella virata progressista della Marvel (non solo il riequilibrio razziale, anche quello di genere è significativo con gli spin-off dedicati a Black Widow e Ms. Marvel) pesano senza dubbio analisi di mercato più che convinzioni politiche. La linea – allargare il bacino del pubblico – la detta la nuova proprietà, quella Disney che sta imponendo un modello di revisionismo aggressivo, molto vicino alla cancel culture nordamericana.
Se sulla sua piattaforma la visione di molti classici è preceduta dall’avvertenza della presenza di stereotipi culturali ormai obsoleti, il Sol dell’Avvenire è nell’intenzione dichiarata dalla company di riservare quote LGBT + e di minoranze ad almeno la metà dei personaggi dei suoi film entro la fine del 2022.
Si tratta dell’ennesimo ribaltamento politico dei grandi produttori di immaginario, dopo la sterzata a sinistra della New Hollywood, l’ubriacatura consumistica dei ridanciani Ottanta, l’arroganza imperialista e intimamente inquieta di fine secolo e la cesura terroristica di inizio terzo millennio, quando il vecchio cinema distopico dei Settanta, tradizionalmente antisistemico e destabilizzante, diventa d’improvviso propedeutico alla strategia della paura – le “allegorie del collasso”, le ha definite Douglas Kellner nel suo saggio su Hollywood e politica americana, Cinema Wars - su cui la destra ha costruito i suoi successi elettorali negli ultimi anni.
Di contro l’epopea proto-reaganiana della prima trilogia di Star Wars evolve con la seconda in retorica anti-bushista. Questa dinamica di slittamenti e ricomposizioni, che con una forzatura potremmo denominare la tettonica a zolla del sistema politico hollywoodiano, ha conosciuto nell’ultimo decennio un’ulteriore evoluzione che presenta aspetti di radicali novità rispetto ai precedenti modelli di posizionamento ideologico nell’industria dell’immaginario. Il fenomeno più vistoso è, come detto, l’apparentamento politico dei grandi studios con le istanze socio-culturali dei liberal. Una sorta di trasformismo a 360 gradi imperniato sul mito della grande inclusione e mosso, verosimilmente, su una smaliziata strategia sui target.
Ma questo è l’aspetto più superficiale di un movimento più profondo.
La presa in carico da parte dell’establishment hollywoodiano dei temi cari alla sinistra certifica un’istituzionalizzazione della protesta, un ingresso dei barricaderos nella cerchia dell’élite. Questo spiega probabilmente perché al rovescio dell’immaginario – premiato in parte dal botteghino per i titoli Marvel, mentre per la Disney, con la piattaformizzazione, il discorso è più complesso – non abbia fatto seguito uno spostamento significativo degli equilibri politici nel paese, ma ne abbia semmai fotografato la sua drammatica polarizzazione.
Forse è anche la crisi dell’immaginario cinematografico tout court che andrebbe indagata, perché è ormai chiaro che nessun progetto di egemonia culturale attraverso il discorso per immagini può pensare oggi di passare dal cinema.
D’altro canto, l’ideologia conservatrice sembra ripensarsi dentro un contenitore di pura resistenza. Avendo dovuto abbandonare giocoforza la retorica del nemico e dell’eroe dopo la breve parentesi del post 11 settembre (cancellata dalla crisi finanziaria e dalla demonizzazione senza soggetto della globalizzazione), ha continuato a vivacchiare nello spartito dei generi più muscolari (l’action in primis) ma più per inerzia che per programma e comunque in un contesto di crescente marginalità del filone. L’armata populista è entrata nei gangli del sistema da altri varchi, quello dell’infotainment ad esempio e dei reality spazzatura.
Sarebbe però un errore sottovalutare il clima sentimentale che ne ha favorito l’assorbimento sociale oltre le sue frange più estreme. Il mood trainante nell’odierno immaginario politico-culturale d’occidente è la nostalgia, l’ossessione del vintage. È il vero collante tra immaginario cinematografico e seriale, come dimostra il successo di operazione seriali come Stranger Things o Cobra Kai o campioni d’incassi come Top Gun: Maverick.
La domanda è: la nostalgia è politica? Senza scomodare il “tutto è politica” di Thomas Mann, è evidente come lo sguardo nostalgico sia rivolto al passato più che al futuro, un passato di cui si brama una restaurazione.
Ad alimentare questo rimpianto è il senso di perdita: di status, di prosperità, di sicurezza e di integrità culturale. L’utopia non è più di pertinenza del domani ma di ieri.
Se sul piano individuale è una strategia di difesa psicologica provocata da uno stato di angoscia diffuso, presente, su quello collettivo la nostalgia consolida i legami con quanti coltivano lo stesso ricordo di un tempo idealizzato, “così da tracciare una netta demarcazione tra gruppi concorrenti: la modalità con cui la nostalgia opera è fortemente selettiva, ad excludendum, in particolare verso minoranze e comunità immigrate” (E. Campanella, M. Dassù, Linkiesta, L’oppio dei sovranisti. La nostalgia è diventata il nuovo veleno dell’Occidente).
Abilmente sfruttata da sceneggiatori e showrunner, non sempre con la dovuta contezza ideologica, la nostalgia è un moto di ripiegamento generale che rischia di fornire il contesto emozionale appropriato a politiche violentemente risarcitorie, reazionarie e tribali.
E di far apparire la riscossa delle minoranze un avvicendamento dentro la bolla del potere.