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L’immagine, di quando in quando, ci manda in overload e diventa un intralcio di cui urge liberarsi. Il solo fatto di esistere origina un continuo di immagini che ne sono al tempo stesso traduzione parziale e traslazione temporale. La totale immersione in questo eccesso verboso di realtà cui siamo obbligati porta ciclicamente a uno sfinimento che esaurisce ogni desiderio e capacità di scremare, ricordare, ricomporre la quinta estetica delle forme con cui la percezione ci bombarda senza pietà. Gettare la zavorra di questo congegno misterioso non è così semplice, forse non è proprio possibile.
Rinunciare all’immagine non può che passare attraverso la elaborazione di altre immagini. Che siano immagini di assenza o negazione non fa differenza, si tratta comunque di eventi che ricostruiamo entro i confini di una qualche rappresentazione non necessariamente visiva. Qualunque minima scintilla neuronale si organizza immediatamente in un oggetto che media la nostra relazione con il mondo, la cui presenza, per noi, è figlia di infiniti livelli di intermediazione. Non vi è esistenza senza corpo, non vi è realtà senza la sua immagine che ne costituisce l’unico tramite esperibile.
Il mondo che tocchiamo, o per essere precisi il mondo che crediamo di toccare, è in gran parte immagine del mondo, essenza vicaria di un nucleo destinato a rimanere ignoto. Se qualcuno mi ha dato l’impressione di volersi liberare dal fardello dell’immagine attraverso l’ interposizione di un filtro distribuito tra una pennellata e l’altra come un aerosol questo è Johannes Vermeer. A più di qualcuno sembrerà un controsenso, la perfezione e dovizia di particolari con cui il maestro olandese compilava le sue scene è reale oltre il realismo e non sembra suggerire in alcun modo un conflitto con la rappresentazione letterale delle cose, tantomeno far intendere che tra i suoi motivi ci fosse un desiderio di allontanamento dall’immagine.
Tutt’altro, Vermeer è uno degli autori in cui l’immagine sembra trionfare di una concretezza pragmatica e imitativa fino al minimo dettaglio, immersa in una luce ineguagliata che, per modernità, nei suoi spazi minimi, scavalca di secoli i monumentali squarci luminosi del Caravaggio, a mio parere. Le cose mi appaiono più complicate di così, non necessariamente in contrasto con la convenzione che si pone su un piano diverso, più consono a un corso di storia dell’arte standard.
Nei quadri di Vermeer la tensione narrativa è sospesa al punto da rendere la scena irreale nonostante l’aspersione generosa di realtà per come grossolanamente la identifichiamo. Il racconto non si svolge e il presente, ciò che vediamo, ci viene mostrato come in una teca, si dichiara distante, sottilmente altro. Dal punto di vista tecnico la impalpabilità di quell’aria come una sabbia di grana tanto fine da poterla solo intuire, potrebbe essere stata spolverata nelle fasi conclusive del quadro come un vetro di separazione, oppure può darsi che il principio di distanza fosse dentro l’impasto di quell’universo etereo come pigmento dell’intangibilità.
Quale che sia il procedimento a me pare che Vermeer nei suoi microcosmi conclusi utilizzi l’immagine come il diaframma che si libera del suo stesso peso attraverso l’alchimia di una atmosfera impossibile da definire e diviene finemente e finalmente inaccessibile.
Questa mia impressione è a sua volta una immagine immagine riflessa sul velo immateriale e impenetrabile dei rosati nella stradina di Delft, un capolavoro di negazione della realtà che si nutre di una descrizione minuziosa. Vermeer cesella le scene sottraendole gradualmente al tatto, le mimetizza alla vista, le esclude dalla realtà così concreta che rappresentano. Si può dire lo stesso in misure diverse per molti autori, ma l’enigma dell’olandese ha una sua specificità difficile persino da intuire tanto è nascosta nella tessitura profonda della trama pittorica.
Perché qualcuno dovrebbe pensare ad una immagine che contraddice in qualche modo la sua stessa esistenza? Forse la domanda va ribaltata. Perché pensare alle immagini come realtà concreta e frequentabile quando è perfettamente evidente che il loro impianto si regge sulle basi instabili di una costante trasformazione? Vermeer risponde da qualche secolo con le sue vedute, atomizzate su un diaframma invisibile e presente che si frappone all’osservatore, tentando di farlo venire a patti con una immagine che si gioca sul liminare della percezione precaria e polverosa che accarezza unicamente della sua inconsistenza.