Sogniamo di catarsi che possano affrancarci dalla nostra stessa essenza, la carne, disastro organizzato, sublime sporco e confuso, dalla ineluttabilità provvidenziale del decadimento amico di polvere e muffe che assediano perennemente il muro bianco, tormento ed estasi della silfide borghese, vestale irrigidita nel rigor vivo di purezze inesistenti. Dovrà esserci pure una ragione in questa ricerca di semplificazione che vela una aspirazione al controllo, premessa di sopraffazioni, bondage concettuale di ciò che siamo: un imprevedibile tenuto a bada dai cicli della sua precarietà.

L’affollamento dell’immaginare in esercizio permanente è causa di una stanchezza profonda che si traduce, in chi viene accarezzato dal veleno aristocratico della noia, nel desiderio di smettere il processo, mollare gli ormeggi dei teatri, abbandonare la ruota del criceto, Sisifo dei poveri, strada senza uscita, illusione di illusioni. A quel punto ci si rende conto che la fuga è inattuabile, matrigna della asepsi estetica che costringe la forma nel corsetto artificioso e vagamente sadico del corpo negato. Che lo vogliamo o no siamo frutto della entropia endemica che qualcuno o qualcosa ha liberato dalla gabbia senza curarsi troppo del risultato, sempre assolto dalla urgenza dell’essere che non fa sconti alle maniere.

Forse è un bene, forse no, i pareri sono del tutto inincidenti. Di certo tutto ciò che è vitale si aggrega e prende forma in questo brodo primordiale di materie e tensioni, frequenze e impasti indicibili il cui disfacimento è la ragione prima di rinascita. Eppure rimane il desiderio forte di chiudere il cerchio, scampare al magma colloso delle fisiologie, intravedere una pausa tra le pieghe di una materia che resiste solo per annunciare la resa al samadhi underrated perfettamente laico in cui la tragedia avrà il sapore della commedia, la gioia del dolore.

Si potrebbe pensare al Mark Rothko dei colori spalmati fino a perdersi nei vapori di geometrie indefinibili, ma l’autore dei field paintings si ferma appena un momento prima dell’abbandono a contemplare un orizzonte sconosciuto ed eventuale, utopia che puntualmente lo respinge senza riuscire a privarlo della speranza che da qualche parte, tra i residui intrappolati nel quasi nulla di un rosso o un nero possa celarsi una risposta. Nicolas De Staël, dimenticato dai più e da una storia dell’arte ritagliata a uso e consumo di principi, mercanti e faccendieri, va oltre. Orchestra un silenzio cromatico claustrofobico che vuole comunicare tutta la propria indifferenza all’intento, strada spianata verso l’aprassia definitiva, caduta di tensione senza appello.

Paysage, Antibes, Nicolas de Staël, 1955, MuMa
Paysage, Antibes, Nicolas de Staël, 1955, MuMa
Paysage, Antibes, Nicolas de Staël, 1955, MuMa

La tavolozza di De Staël drena lo spettro cromatico in un indistinto emozionale prossimo allo zero, finestra privilegiata su una fine così radicale da obbligarti a creare un diaframma. Non rinuncia al colore, lo lobotomizza. Più ti avvicini e più senti che devi tornare indietro. Non è solo la reazione dell’osservatore, è quello che succede nel meccanismo estetico del pittore, cui il nulla, comunque, è negato. De Staël si avvicina pericolosamente alla eventualità di recidere l’impulso neurologico e riesce ad illudere l’osservatore che sia possibile.

Mark Rothko e Nicolas De Staël hanno deciso di chiudere la propria esistenza prima della scadenza naturale. Osservando le loro opere scelgo di dimenticarlo per godere appieno la disperata meravigliosa offerta fasulla di liberazione che riposa su campiture imposte una all’altra, corpi estranei la cui parestesia profonda rende insensibili al reale. Forse è questo il lato ambiguo della bellezza, nasce per indicare la via e finisce per dar corpo ad un miraggio. Una droga, come certi anestetici in grado di soffocare lo stimolo all’origine e mettere fuori gioco la percezione, frutto laborioso di liquidi e materie varie che rendono il mondo una realtà sperimentabile.

Anche lì nel territorio di quasi inesistenza non sono certo che non ci siano sogni, qualche immagine di assenza che prende corpo, come a dire che il nulla è sempre e comunque qualcosa. Immaginare di non immaginare porta su un unico sentiero, pace che non è pace, fine che forse non è nemmeno fine. La nostra unica risorsa è il palcoscenico delle mille rappresentazioni che riemerge ad ogni annegamento, correre qua e là, strillare, recitare, morire e rinascere, scrivere, dipingere, pensare, salvare e condannare, recita multiforme di cui ignoriamo il senso e da cui non ci è dato scappare, qualunque via di fuga si scelga, colore, suicidio, anestesia.