IMMAGINE. Obitorio nomade sui generis che celebra la impossibilità di morire dell’esistere in forma di rappresentazione oltre i limiti che gli attribuiamo.

Qui si sigilla lo iato tra la fisiologia instabile che attraverso processi incomprensibili, qualunque patologia o entomologia forense si applichi, si scioglie nell’apparente annientamento, e il persistere ostinato di qualche congegno estetico che le sopravvive in una forma. Il crimine finale è inattuabile, il quasi doppio sopravvive ai destini di ciò che rappresenta, che non è il fine ma un pretesto.

L’immagine ha un’unica funzione: perpetuare ciò che imita, immune al fato cui l’imitato non può sottrarsi. L’immagine è il dogma della sopravvivenza messo in scena in un teatro cui non è possibile dare un nome perché ha tutti i nomi e tutti i nomi non bastano comunque a definirlo. Le strategie formali tentate dagli autori per indagare il mistero di questa ostinazione sono innumerevoli, non di rado caratterizzate dagli assetti ideologici più vari diligentemente ricomposti in versioni di maniera. In questo mare del tutto simile a Böcklin nell’isola dei morti, appena turbato da vibrazioni prossime a spegnersi con la finezza di una tortura cinese avvolta dalle nebbie vagamente zuccherose di un epilogo fatale e romantico, il mio primo pensiero va a una serie di Andres Serrano, lo scacco matto alla Morte del Settimo Sigillo di Ingmar Bergman congelato in composizioni prive di effetti speciali.

The Morgue, paradosso impraticabile e magistralmente risolto, banchetto livido di ombre e forme apparecchiato nel regno ambiguo di una assenza cui si assiste e che rimane inconcepibile. Segnalibro essenziale della serie è Rat Poison Suicide II, del 1992, precipitato di energia vitale compresso a forza in un piede monumentale che trae sollievo da tanta pressione grazie a una incisione che pare sul punto di respirare piuttosto che denunciare la causa di una fine.

Si dice che Serrano indaga il “lato oscuro”. È la semplificazione banale vittima dell’inganno narrativo. The Morgue è un racconto luminoso, potente e vitale, celebrazione di permanenza, certificazione di una morte impotente cui l’immagine dichiara la propria superiorità, corporeità traslata, condivisa e mutevole. The Morgue non è uno show della morte, è il riscatto di un frangente cruciale che ci interroga e a cui non siamo in grado di dare risposta, forse è proprio la risposta, ipotesi laica che Serrano riesce a far intuire liberando la carne da uno scandalo che è pertinenza esclusiva dell’intenzione in cui gioca il suo destino.

Carne pura, gloriosa e transitoria, carne vitale, veicolo di esistenza e sua negazione, disfacimento tentato e fallito nel ciclo inesauribile del seme che una volta nato non può più morire. Ogni novello san Tommaso può mettere il dito nella piaga della sua inadeguatezza riflessa dallo specchio deformato di The Morgue e intravedere tutta la possibilità concreta di una resurrezione, qualunque significato ognuno possa dare a questa parola impenetrabile, immersa nei liquidi gloriosi che permettono quotidianamente l’esistenza, sporchi e perfetti, via insostituibile di salvezza e di dannazione.

L’immagine non solo non muore, non solo non degrada in forma inerte, ma risorge letteralmente dalle categorie con cui giudichiamo ciò che vi è rappresentato. Non è un ribaltamento della logica, è il trionfo dell’essere liberato finalmente da ogni ipocrisia benpensante. Non vi è nulla di osceno nella morte e nelle sue viscere, le nostre viscere, se non la stessa oscenità che ci permette di nascere, vivere, tentare la morte e resisterle, in qualche modo.

Rat Poison Suicide II sopravvive alla morte del corpo che rappresenta, accarezza il suicidio con l’affetto amaro di uno sguardo senza pregiudizio. Tutto succede nel congegno estetico, va ricordato. Il modello si perde nel limbo insondabile della fenomenologia perpetua che tutto trasforma mentre l’immagine entra nel flusso come pegno di esistenza quotidiana accessibile alla memoria che ne diventa testimone inattendibile e la fa succedere in ciascuno di noi di nuove infinite vite secondo il proprio modo.

Serrano ci invita a sbirciare nell’anfratto della vita che rinneghiamo per un pudore che sa di tradimento, attraverso piccole ferite complici come spiragli nel muro dell’inesistenza, oltre la sconfitta, gloria di una immagine che è resurrezione permanente, bagliore asimmetrico di illusioni più vive della carne, eco appena deformata di redenzione.