La natura intima dell’immagine, pura ipotesi di una entità forse inesistente, di certo imprendibile. Quasi sempre viene confusa con la sua rappresentazione, surrogato di un nucleo mesmerico da cui zampilla un flusso continuo di effetti scenici senza che la causa prenda mai veramente corpo. Ha molto in comune con quella spinta misteriosa che trasforma un seme in pianta e due gameti in un essere umano, posso studiarla, indagarla attraverso le sue conseguenze, ma lei è sempre altrove.

Ogni critica o giudizio, la storia dell’arte con le sue teorie e distinguo che trovo insopportabile quando pretende di eleggersi a prontuario di valori e ragioni piuttosto che accettare il ruolo da mappa topografica di finzioni in serie, sono il risultato di un’ansia a spiegare l’inspiegabile, tanto compulsiva quanto teneramente inutile. Un punto di partenza potrebbe essere rinunciare al raziocinio, ma questo, per come siamo fatti, è impensabile. Ecco allora sorgere ovunque narrative, risonanze di un sentito dire, rimando arcano che sussurra intenzioni probabili, necessità irrinunciabili, pensare la messa in scena, il suo aspetto, l’architettura del fondale, teoria infinita delle apparenze di ogni genere.

L’essenza dell’immagine, se esiste e dove esiste, è indifferente alle molteplici funzioni che le si attribuiscono e vanno dall’essere strumento impareggiabile di negazione o conferma al trampolino altezza uomo per aspirare ad altezze mistiche gloriose e apparati intellettuali sorprendenti. Confondere l’enigma con i suoi effetti collaterali, le immagini che oggi tutti produciamo in quantità incalcolabili come le opere dei grandi maestri, equivale al fraintendimento per cui la parola coincide con ciò che indica, accorgimento funzionale, eco di unità perduta.

Immagine e parola dovrebbero essere indicibili, e noi desistere dal farci delle immagini, utilizzarle, per arrendersi alla impossibilità di catturare un evento sempre delocato rispetto al suo manifestarsi. Anche questa, però, è pensiero per immagine di tante altre immagini. Non rimane che accontentarsi dell’artificio su cui abbiamo costruito l’idea di storia, accettare il perno delle nostre sintassi come un incidente che non fornisce alcuna spiegazione riguardo la sua fonte prima. Non se ne esce e si viene respinti così nel mondo dove tutto il labirinto dell’apparenza per come la possiamo percepire sembra avere un senso.

El Greco - Purificazione del Tempio (Olio su tela, 1610-1614)
El Greco - Purificazione del Tempio (Olio su tela, 1610-1614)

El Greco - Purificazione del Tempio (Olio su tela, 1610-1614)

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Allora la coscienza dell’inganno diventa più sopportabile se prende tutto l’acido delle immagini di El Greco che riesce a comunicare la insofferenza per la ineluttabilità del limite. Non avendo alternative, lo percorre fino in fondo compromettendolo da dentro senza rinunciare alla forma e senza fuggire dalla rappresentazione, agendo come un parassita utile che via via scarnifica l’ospite ignaro del fraintendimento che lo abita da principio e fa intendere una via nuova possibile e sconosciuta.

El Greco non è l’unico in questa direzione ma certamente è un precursore. Dimentichiamo per un momento le teorie dell’arte, non di rado autocelebrazione di chi le elabora, necessarie per qualcuno, divertenti solo a volte. Non dirò della forma allungata per la tensione mistica a cercare chissà cosa. Non dirò nemmeno della sintesi drammatica tra oriente e occidente e della opposizione ai dettami estetici. Nel mio discorso si tratta di dettagli. Dirò invece di una morte innestata con maestria chirurgica in corpi che appaiono vivi e compromessi, la rinuncia ad esistere secondo canone, mai veramente compiuta a causa della dipendenza fatale, vomitare continuamente raffigurazioni di un sogno immaginario, l’essere.

Penso a El Greco e vedo la ossessione spasmodica ad esplorare le tinte della putrefazione di Chaim Soutine, con il suo bue scuoiato che guarda dentro un corpo apparente, cercando un senso che non si trova, non lì, non nell’immagine che inevitabilmente tradisce sé stessa, eutanasia sospesa sul punto del disfacimento di ogni celebrazione, consolazione accessibile, unica sconfitta accettabile.

Ricavare immagini che denunciano il raggiro senza potersene liberare forse è il massimo cui possiamo aspirare, obbligati a riconoscere una dipendenza imperscrutabile e ambigua, cardine di presenza, fondamento della nostra possibilità di esistere, fosse anche per l’immagine che ammala la forma della sua stessa malattia e rimanda ad altro e oltre dove, per ora, non ci è consentito andare.