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Claire Fontaine - Siamo con voi nella notte (60. Esposizione Internazionale d’Arte - Padiglione della Santa Sede)
La finestra di un carcere sogna spada e bilancia che si scambiano di ruolo, come un telaio scabroso intreccia l’ ordito di filati ibridi inclinati in mille frazioni di azione e gesto, architetture di intenzione. Alchimia singolare.
Gli incidenti del reale generano sempre la rappresentazione che ne dovrebbe certificare l’esistenza. Finisse qui sarebbe poca cosa: una interminabile, noiosa, sterile teoria di oggetti chiusi nell’egoismo insignificante di un fermacarte sulla scrivania borghese al cui riscatto non giovano stranezza e capriccio di forme e materiali. Quella rappresentazione, invece, è il principio di un viaggio senza fine.
L’immagine feconda immagini e dà vita a organismi versatili che ne spargono le sorti in una semina di sorpresa e azzardo, tracce di una meta inaccessibile che guida la cecità fatale e commovente di chi la cerca: il progetto, ipotesi fluttuante che innesta elementi irriducibili, un pensiero e un sasso, la muffa e l’attesa, odore di morte e salvezza, parola che spunta l’arma di una condanna che condanna tutti noi da principio.
La galera, diaframma di un disegno ampio, immagine i cui ritmi, orizzonti e sostanza sono altro, estranei a ciascuna delle immagini che lo compongono, attraverso cui si può ripensare la stessa idea di immagine come un progetto dall’essenza composita e temeraria che ricolloca tutte le immagini possibili, particelle incongruenti e cooperanti al fine di cui sono all’oscuro.
L’immagine-progetto ha la natura asimmetrica e cangiante del difetto e della contraddizione che trasfigura in pietra angolare, riscattando ogni principio collettivo di omissione. È una catarsi sacrificale della biologia che, chissà perché, aspira ad astrarsi mentre affonda saldamente le sue radici nelle pastoie provvidenziali che le impediscono un atto di superbia intollerabile: l’ascesi perversa che rinnega la carne da cui trae il suo alimento. L’autore di questa finestra fuori dagli schemi è il corpo collettivo e variegato della Chiesa attraversato dai travagli della sua immagine.
È la prima volta che il travaglio vira con decisione verso un riscatto da pratiche stanche, attraverso le maglie aperte del progetto presentato alla Biennale di Venezia, o per meglio dire, alla umanità disgraziata e dimenticata. Così aperto ed eversivo da rendere questioni di dettaglio le classiche analisi critico-analitiche tanto care all’arte vissuta come mestiere, forma contemporanea leziosa di simonia laica.
È bastato aprire una finestra, si potrebbe dire, ma va ricordato che per aprire quella finestra sono stati necessari secoli e secoli di apartheid senza sconti. Era necessaria la forza della resa, dell’abbandono, anche solo per un istante, anche solo nel pensiero, per rinunciare al feticcio dell’oggetto e accedere alla energia destabilizzante del progetto, unica casa possibile, una casa nomade, una casa esposta, affidata alle ancore leggere della speranza condivisa.
Il progetto è un quadro cui sono indifferenti le eventualità dei segni, delle composizioni, delle ritmiche, che scavalca ogni opprimente idea di estetica con la zavorra delle sue accademie per accedere al territorio vasto e accidentato della libertà poetica offerta all’uomo dal principio, libertà di bene e male, dignità assoluta che non ammette recinti. A tutto il diorama autoconservativo che fa e disfa i suoi giochi sotto la benedizione di un mercato compiacente che nell’arte cerca una improbabile autoassoluzione, Con i miei occhi dà un deciso calcio negli stinchi, io spero il primo di tanti, chiamandosi fuori dalle ciprie del circo per infilarsi decisamente nel fango nobile del dramma umano.
Se l’arte contemporanea di maniera pretende essere il sacro crisma che benedice selettivamente chi ci sguazza dentro, l’immagine-progetto del Padiglione della Santa Sede 2024 apre la finestra di una bellezza che regala una via a ciascuno, senza gerarchie e privilegi, una bellezza ubiquitaria, refrattaria al ghetto-prigione dorato e mortale di chi si immagina eletto. In una delle prime puntate di questa serie ho preso spunto dalle immagini della nebulosa Testa di cavallo concorso di colpa tra polveri, gas e noi, da cui la nebulosa mutua l’ immagine.
Così alla Giudecca un sunto di umanità esclusa reclama la sua stessa bellezza e prende carne, la carne loro diviene nostra, ci impregna e potrebbe non lasciarci più, prodigio semplice di vestali protempore, il nostro futuro che rischia di diventare carcere senza la carne di una immagine. Finestra nebulosa, benedizione amica di acque marce e salvifiche.