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Colin Farrell in the film THE BANSHEES OF INISHERIN. Photo by Jonathan Hession. Courtesy of Searchlight Pictures. © 2022 20th Century Studios All Rights Reserved.
Il grigio lucidato al nero nello stagno opaco di Dublino allatta lo smeraldo scarno e feroce delle Midlands con la sua mammella ispida e coriacea. Poi, un giorno, precipiti nel surrealismo reticente di
The Banshees of Inisher in, la cui traduzione in italiano Gli spiriti dell’isola non rende giustizia alla primordialità magica di un animismo a mezza strada tra celtico e mitteleuropeo nomade soffocato nella claustrofobia open air meravigliosa e tragica di panorami mozzafiato. Allora ti chiedi se la cartolina dell’isola verde è affogata definitivamente nella palude delle assurdità o se invece la tavolozza si è arricchita di ulteriori prospettive e sfumature inaspettate.Da un lato il film scritto e diretto da Martin McDonagh fa piazza pulita di ogni pretesto che possa indurre lo spettatore ad attendere fiducioso il sollievo illusorio e sempre consolante di un lieto fine, dall’altro trascina il malcapitato in quella forma terminale di isolamento attraverso cui crede di poter intuire la ragione arcana che svela il destino comune ad ogni figurante, animali e pietre compresi.
L’impressione è quella di un palcoscenico ribaltato dove la vera e unica banshee è proprio l’isola di cui i vari personaggi sono unicamente gli organi periferici, sensori rivolti al mondo come una sfida muta e feroce, monosillabi incastrati nell’alfabeto gutturale e potente che, chiuso ermeticamente nel suo proprio nucleo, precede e comprende ogni sceneggiatura immaginabile.


Nessuna distrazione, i caratteri sono privi di abbellimenti e variazioni di maniera, ostinati fino all’esasperazione, resistenti reliquie di un carbonifero perenne che non evolve, incistato in una coazione inspiegabile a non abbandonare la posizione cui non serve alcuno scopo che non sia il suo stesso essere. Non vi è alcuna possibilità di scelta perché la scelta è scritta nella materia intima del genius loci, stigmata fossile che nulla e nessuno è in grado di scalfire.
La rottura unilaterale della amicizia da parte del vecchio Colm che sprofonda il giovane Padraic in uno sconforto così irriducibile da portarlo a stalkerizzare l’ex compagno di pub, chiacchiere e birre, è un gesto semplice e insieme incomprensibile cui non giovano alibi come la necessità di dedicarsi alla propria tensione artistica o non perdere più tempo nella reiterazione di monologhi a due già vecchi di mille anni prima ancora di essere pronunciati.
La decisione è tanto radicale che a tratti si è tentati di sperare nella eccezione, il ricongiungimento anche parziale tra i due, una apertura al giovane la cui insistenza è niente altro che il perfetto contraltare questuante e idiota oltre la decenza, disturbo ossessivo compulsivo consolidato dalla disperata solitudine del contesto. Le cose non cambiano, la riappacificazione non succede, il conflitto tra i due innesca una frana progressiva e devastante sul liminare paradossale che drena la trama di ogni senso intellegibile secondo le logiche ordinarie e presentabili delle nostre società preda di ipocrisie woke ed empatie funzionaliste di ritorno.


The Banshees of Inisherin è l’epitaffio agreste di una opposizione viscerale alla natura dinamica della realtà cui tutta l’isola si oppone con forza, animata da una caparbietà che con la fierezza non ha nulla da spartire. Il vecchio Colm finisce per compiere un gesto tragico che accelera e in qualche modo rende manifesta tutta la nefasta inconciliabilità delle posizioni.
Il taglio delle dita, ritorsione autolesionista che non sortisce l’effetto sperato su Padraic, speculare asimmetrico del vecchio amico, è l’esempio perfetto del sacrificio il cui fine è comunicare tutta la aggressività passiva di una decisione dal sapore apocalittico priva di qualsiasi velleità epica. La spirale chiusa degli eventi ha tutte le caratteristiche del rito sciamanico avvolto dalla indecifrabilità di una veggenza primigenia indifferente al fato imperscrutabile che induce singoli e comunità a produrre le proprie vittime.
Ritrovare nell’opera di McDonagh il traslato semipedagogico del dramma irlandese con le sue faide irriducibili insistite oltre ogni logica è fin troppo semplice. Gli spiriti dell’isola vibra sulla frequenza modulata e straziante della isola-banshee, utero geloso e potente che inchioda i suoi figli alla fedeltà cieca, genetica e geologica di cui la guerra civile e i suoi eventi tragici sono una fatale risonanza storica, frutto velenoso del cordone ombelicale che è impossibile recidere.