La Babele in cui i giorni si divincolano come insetti appiccicati al vischio che finirà per spegnerli è uno strumento complesso di melodie infinite, quasi sempre imprevedibili, mostruosità e glorie, banalità e sussulti d’orgoglio, velleità malriposte e grandi talenti, eventi che travolgono i popoli confusi nel magma brulicante del quotidiano microscopico.

Ho sempre avuto il sentore di un trait d’union, una sintesi indefinita, una qualche ragione di fondo che abbraccia il programma variopinto della dispersione nell’unica cornice di un suono unico capace di guidarci alla destinazione verso cui scorre il fiume in piena del vivere, dell’agire, del pensare. Niente più che una nota di bordone, memento monocorde del destino che incornicia l’affanno, meta d’inerzia sulla cui quinta apatica si giocano le fortune alterne di una umanità travolta dal suo stesso procedere acefalo. Vicinanza ostile promessa indecifrabile.

La zona d’interesse, film vincitore di due premi Oscar scritto e diretto da Jonathan Glazer, restituisce prima di ogni altra cosa la percezione plastica dell’accompagnamento a margine che avvolge le apocalissi in corso meticolosamente mimetizzate tra dettagli nitidi a tratti colorati di prassi borghesi trapiantate sul campo, maschera presentabile del senso stravolto dagli obblighi operativi con la loro urgenza che impone il cinismo del fare alla imponderabilità dell’essere. Agire, qualunque sia, è il payoff che giustifica l’aggiustamento morale e ogni genere di scelta, non importa quale devastazione possa significare.

Il bordone inesorabile e discreto di Glazer semplifica e concentra in una sola voce un coro greco che non piange e non strepita, estraneo alle debolezze dell’emozione, refrain di meditazione sorda come una nausea persistente priva di sbocco per la quale cui non vi è cura, figlia di chi la prova, genesi e frutto, tragedia di insanabile contraddizione.

Rudolf Höss, medio mediocre antropologico mostruoso e accessibile, è dopato all’inverosimile dal miraggio di carriera brillante e vita agiata. Il film riesce ad imbastirne una allegoria perfetta attraverso la natura sintetica del giardino alieno che lui stesso abita con famiglia e comparse a vario titolo, specchio di un Dorian Gray decisamente atipico. Non invecchia, non imputridisce, non mostra i segni della catastrofe che nutre le sue radici. Il tempo che vi scorre è immerso in una formalina di negazione artificiosa che ricopre l’interno spaventoso e discreto di una glassa acida e claustrofobica capace di celare l’inconcepibile normale.

Quel giardino è Rudolf Höss e Rudolf Höss ne è l’essenza, anima profonda dello sterminio che si regge sulla connivenza volontariamente decorticata dei suoi abitanti. Quel giardino è il nostro sguardo sul mondo, su noi stessi e gli altri, selettivamente permeabile alle frequenze anomale che ci circondano e riconosciamo solo quando non disturbano i nostri piani.

Non mi convince del tutto la messa in scena dell’assuefazione che diviene affezione patologica, quasi a giustificare la scissione sconcertante dei personaggi con un disassamento difettoso delle coscienze. Nelle vicissitudini minime di quel microscomo a me pare di cogliere un fato organico alla natura stessa dell’umanità che non ha alcun bisogno di ammalarsi per percorrere allegramente le vie della più terrificante distruzione. Dolorosa evidenza che non ammette repliche e di cui è impossibile liberarsi. Per dare sfogo ai conati di vomito che lo assalgono in una delle scene iconiche della Zona d’interesse il comandante di Auschwitz dovrebbe trasformarsi in un Marsia eviscerato della sua stessa carne. Non avviene, naturalmente.

L’unico presidio in grado di tenere a bada ogni crisi emetica è proprio il giardino, camera di decontaminazione apparentemente insignificante e incredibilmente efficace che ci appartiene più di quanto immaginiamo: possiamo trovarlo in sala da pranzo come in fondo alla strada, nel passo accelerato della rinuncia furtiva come nello sguardo negato, omissione subdola che si fa dimenticare facilmente. L’entomologia sghemba del giardino d’interesse non è un prontuario inerte di nefandezze umane, è materia sorprendentemente viva, liminare di un abisso che frequentiamo abitualmente senza curarcene. Il bordone è l’unico segnale che non permette l’amnesia totale, annuncio cui non segue alcun evento risolutivo, sospeso come noi sul baratro di ciò che siamo, divina distanza dagli eventi che contiene e osserva affogare nel gorgo dei propri fluidi.