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Francis Bacon
Se l’autore è un incidente che obbliga il flusso del reale a prendersi una pausa nei confini dell’immagine, unica forma che lo rende disponibile anche se in formato cartolina, nessuno più di Francis Bacon ne incarna pienamente la sostanza e le controversie. È inevitabile che tutto finisca prima o poi nelle semplificazioni dello stilema accademico, il carapace vuoto, residuo della scossa vitale alla radice di ogni intuizione.
Nel caso di Francis Bacon il tema assimilato dalla vulgata è indubbiamente una distorsione magistrale della figura, cruda, priva di manierismi, percezione asincrona che graffia lo sguardo come se sugli occhi qualcuno avesse passato una carta vetrata a grana grossa. Lo si può facilmente constatare osservando le realizzazioni della interminabile schiera di autori che si sono ispirati al suo lavoro. Ciò che ne rimane è l’aspetto finale, il digradare di corpi e volti in morfologie indefinite e aspre, sommarie, incredibilmente sufficienti, che sono solo genericamente associabili a una carne definita, confinata in costruzioni spaziali sorprendenti, perfette e immodificabili nella loro essenzialità pena la perdita di un equilibrio quanto mai difficile da teorizzare perché vive nell’attualità del gesto.
L’immagine che riassume il lavoro di Bacon è realmente il quadro finito? Oppure è il relitto di un processo tentato e fallito una volta che il quadro è compiuto, una immagine condannata a sfuggire se stessa?
A mio modo di vedere la meraviglia del lavoro di Bacon è il costante fallimento di ciò che cerca, un fallimento sontuoso, carico di tensione tutta sclerotizzata in strutture pittoriche che giocoforza devono dare conto di una forma compiuta, quella che definiamo, sia pur erroneamente, immagine, versione illustrata, didascalia che tenta di spiegare l’inspiegabile.
Naturalmente questo vale per il concetto stesso di immagine a prescindere dagli autori ma in Bacon la contraddizione assume i contorni di una vera e propria filosofia dell’opera per cui l’immagine è il processo che l’attraversa, che produce rappresentazione come lo scarto suggerito grossolanamente dalla forma finita del quadro, vivo nel costante rimando al non accaduto che sembra stare per accadere, gravido di verità nascoste, rivelazioni che sconfinano tra magia e macelleria, perversione e catarsi. Sospensione? Forse. Ma anche sfregamento, sfioramento, devastazione incompiuta sempre al punto giusto.
Francis Bacon sembra ereditare la somma dei percorsi tentati da artisti come Sutherland con le sue architetture biomorfe e Muybridge, precursore assoluto della riflessione sull’immagine come il fotogramma morto di un flusso imprendibile che non è la parte e nemmeno la somma delle azioni rappresentate in tutti i loro stadi, durante il loro farsi e disfarsi, come a inseguire l’essenza del gesto che per sua natura fugge sempre da un’altra parte rispetto ad ogni tentativo di fissarlo in un forma chiusa.
Chi conosce Muybridge si accorgerà facilmente che il suo approccio appare la forma puntigliosamente analitica di ciò che Bacon è riuscito a concentrare in un unico contenitore formale che svanisce per troppa densità nei confini perfettamente sfrangiati di una mappa topografica del corpo sul punto di perdersi e che proprio attraverso quel perdersi acquisisce una presenza senza precedenti e forse nemmeno epigoni convincenti.
In Francis Bacon succede che la memoria visiva del liminare visivo e formale dell’immagine finale venga assorbita dall’urgenza di negare se stessa, non perché non esista, ma perché perennemente delocata rispetto alla sua rappresentazione, qualunque essa sia.
Se “nulla è se non è immagine”, come ho ipotizzato nella puntata precedente, Bacon attraverso la alchimia procedurale e cromatica riesce a dar conto della sua impossibilità di essere compresa dentro la rappresentazione che aspira ad esserne il feticcio vitale, misurabile, comprensibile. Poi succede l’inevitabile, la non immagine diventa immagine per poter essere catalogata, cartolina di un compito fallito in partenza perché diversamente non potrebbe essere, che in Bacon mantiene tutta l’evidenza e la freschezza di quel fallimento nella carne-architettura-ambiente-spostamento che contempla se stessa resa muta da una mordacchia pittorica geniale che le impedisce di gridare all’osservatore tutta la propria impossibilità di esistere.