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Arancia meccanica
L’immagine è un gioco distribuito per molteplici livelli, ciascuno dei quali configura un universo di regole e strategie specifiche. Ogni livello propone la sua partita, il suo ambito, i suoi obiettivi. Non si tratta dei gradi di difficoltà in un videogame, superato uno si va a quello successivo. I livelli in cui si gioca la partita dell’immagine sono indipendenti, definiti da convenzioni che non rispondono ad alcuna gerarchia di valore o complessità. Gli autori giocano il livello che è loro più congeniale per una infinità di ragioni dettate non di rado dal caso, o qualcosa che al caso somiglia molto come il destino genetico e comportamentale, reinterpretano le regole, a volte passano di categoria, a volte vincono e a volte perdono la sfida.
Rivedere Arancia meccanica, tra quelle poche opere che segnano inevitabilmente un prima e un dopo, è stato sorprendentemente nuovo, non so se per le qualità intrinseche del film o per il cambio radicale del mio approccio rispetto a qualche decennio fa.
Il gioco in specie è quello dell’immagine come veicolo simbolico e privilegiato di contenuto che si innesta in una struttura morfologicamente efficace di sceneggiatura, regia, fotografia e tutto il resto, e delinea una curva narrativa il cui compimento è essenziale rispetto alle dinamiche apriori della gestazione visiva in Twombly e Bacon. Per poter procedere darò per scontato che l’immagine non solo è possibile ma è sostanziale, un tramite di conoscenza, feticcio conchiuso e polarizzato disponibile alla dissezione a all’analisi con le sue ragioni e le sue morali. Arancia meccanica è un manifesto esemplare di schizofrenia riguardo il contenuto etico come must devozionale della rappresentazione.
Da una parte la sintassi estetica del film, dall’altra una intera categoria di immagini che il film utilizza come espediente scenico e narrativo e che sembrano appartenere ad un mondo (o gioco) del tutto estraneo al primo. Lo svolgersi del film materializza una atmosfera al limite della deprivazione sensoriale che dà conto di una profonda sfasatura tra la violenza narrata e la sua sublimazione in forma estetica. Si potrebbe pensare che la sanificazione emozionale della regia si spinge ai limiti del surreale distopico (secondo canoni obsoleti moderno-vittoriani) per descrivere lo scenario psicologico di Alex il cui dogma esistenziale e strumento di leadership è il crimine disgiunto da qualsivoglia inquinamento empatico.
Sono convinto invece che la scissione cui si assiste nella traduzione formale del mondo allucinato di Arancia meccanica sia dettata da una urgenza estetica, l’aspirazione di Kubrick a liberarsi dal racconto e dalla morale dell’immagine attraverso una decontestualizzazione asimmetrica tendente all’astratto che, per ovvie ragioni di confezione, non riesce mai del tutto. Arancia meccanica è un campo di battaglia dove si combatte la battaglia epica tra il Kubrick narratore e il Kubrick poeta, tangibile in ogni singolo fotogramma, in ogni singola scelta sonora, in ogni singolo dettaglio delle scene, in ogni singola riga di sceneggiatura.
Non è finita qui. La matrioska narrativa del film contiene un’altra categoria di immagini, àncora di salvezza per lo spettatore comune, sospirato e confortante insegnamento che ogni opera dovrebbe veicolare. Si tratta delle clip cui Alex viene sovraesposto nel corso del processo rieducativo, con il duplice intento di significare la trama e testimoniarne la riconversione morale. Qui la frattura tra ciò che si vede e ciò che si sente o si dovrebbe sentire, si ricompone nello scopo salvifico del messaggio, tema sociologico di grande interesse che di fronte alla forza estetica del film risulta pedante e scontato proprio come l’ultimo capitolo del testo di Anthony Burgess da cui Clockwork Orange è tratto.
Kubrick, nel suo modo unico, definisce due binari paralleli percorrendo i quali si ha la percezione plastica di come l’immagine non può avere un valore morale intrinseco. Il potenziale significato dipende dalla decodifica dell’osservatore e dalla riscrittura formale, contenitore fluido di portati vari e irriducibili alla forzatura di ogni moralismo. La grammatica del film diluisce la violenza fino a neutralizzarla nella ricerca estetica, mentre le immagini educative che il film contiene come espediente utile alla narrazione ne recuperano in pieno lo stigma morale ed etico. Kubrick riassume organico e meccanico, morale ed estetica nello slang cockney che ne è al tempo stesso titolo e attributo: As queer as a clockwork orange.