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“Bisognerebbe rivedere questo film di tanto in tanto. Io ho peccato perché non lo vedevo da più di vent’anni”. A parlare è Sandro Veronesi, ora in sala con Il colibrì, che ieri nell’ambito del Med Film Festival ha reso omaggio, nel centenario della nascita di Francesco Rosi (15 novembre 1922) e Raffaele La Capria (3 ottobre 1922), al film Le mani sulla città di Rosi, nato da un soggetto scritto a quattro mani con La Capria, vincitore del Leone d’oro a Venezia nel 1963.
Una proiezione e un omaggio resi possibili grazie alla collaborazione con la Cineteca Nazionale che ha restaurato questo capolavoro che inchiodava la corruzione e la speculazione edilizia nell’Italia degli anni Sessanta. “È questo forse il film più impegnato della storia italiana, un film che oggi non si farebbe mai”, prosegue Veronesi, protagonista della masterclass insieme a Alberto Anile, conservatore della Cineteca, e Federico Pontiggia, consulente alla direzione del MedFilmFest.
“Un film invernale, nero, nel quale stanno tutti con il cappotto. E a Napoli il cappotto è il simbolo della tristezza. perché sono pochi i giorni in cui te lo devi mettere. Il sole non c’è mai in questa Napoli fredda e cupa. Non è un caso che i protagonisti si chiamino Maglione e Nottola. Una città nella quale c’è una violenza che si accanisce sulla terra dove sono cominciati a spuntare alveari costruiti male.”.
Ecco, proprio in questa dimensione metaforica e allegorica, Rosi insieme a La Capria raccontarono la loro indignazione per il degrado. “Rosi e La Capria erano amici di infanzia. Fondarono insieme, quando avevano vent’anni, nel 1945, la rivista Sud. Lì affrontarono il tema dei temi: andarsene o restare in una città come Napoli dove non c’è speranza che le cose possano cambiare. Un argomento anche affrontato in Ferito a morte (ndr. Il romanzo di Raffaele La Capria pubblicato nel 1961, vincitore nello stesso anno del Premio Strega, del quale nel corso della serata Federico Pontiggia ha letto alcuni brani). Entrambi se ne sono poi andati. Il primo è diventato regista, il secondo sceneggiatore, però, non a caso, tutti e due per farlo si sono dovuti trasferire a Roma. Erano molto diversi l’uno dall’altro. Rosi aveva una visione più politica, La Capria più civile. Rosi si indignava per il degrado etico, morale e politico, La Capria per questioni più estetiche. D’altronde La Capria non voleva passare per essere un autore impegnato, quindi minimizzava”.
E sul potere a Napoli dice: “La camorra esegue una serie di cose illegali, mentre il potere è nelle mani dei politici e dei grandi professionisti, che hanno ridisegnato la città. Il segno del potere a Napoli non sono le sigarette di contrabbando o la droga spacciata, ma i palazzi e la speculazione edilizia e tutto l’apparato che è servito in quegli anni. Qui non ci sono camorristi, ma signori che si riuniscono in consiglio comunale o in case e circoli privati, sempre gli stessi. La camorra negli ultimi anni è diventata un genere al cinema e dunque una star. Di conseguenza è stato offuscato un concetto che era messo perfettamente a fuoco ne Le mani sulla città. Un po’ come il prestigiatore fa vedere con una mano una cosa strana e tu non vedi l’altra. La camorra è la prestidigitazione che sottrae attenzione a quel che succede a Napoli dove comandano sempre gli stessi. Persone come Nottola, il protagonista costruttore del film, che si portano appresso una valanga di voti comprati. In questo film Napoli non viene mai nominata se non in un pezzo nel quale si dice che è due città, una sotto, sotterranea e fatta di caverne, e una sopra. Una metafora anche in termini di potere, di economia, di lavoro. Ma la Napoli di sopra non è la camorra. Le mani sulla città non le ha messe la camorra. E preciso che Rosi e La Capria non erano di quelli che dicevano che la camorra non esisteva”.
Infine sul restauro Alberto Anile conclude: “Un film in pellicola può durare al massimo cento anni. Quindi la maggior parte dei film dell’epoca del muto possono improvvisamente disgregarsi e questo è un processo irreversibile. Con il digitale una volta messa sul computer l’immagine diventa potenzialmente eterna, si fanno miracoli incredibili, si può tarare il colore e riportarlo a contrasti da film nuovo. Ogni proiezione in pellicola significa un’usura, con il digitale invece è tutto perfetto, ma dopo un po’ di tempo va aggiornato e ci sono casi in cui non si riesce più a recuperare ciò che è stato digitalizzato. La cosa più furba sarebbe fare il così detto ritorno in pellicola”.