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Achille Lauro (Webphoto)
Nel luglio del 2021, Prime Video annunciò di aver sottoscritto un contratto di collaborazione con Achille Lauro. Lanciato come “uno dei più importanti Overall Deal d’Europa”, l’accordo prevedeva la produzione di film, serie tv, documentari e format streaming. Era l’estate di Mille, tormentone siglato con Fedez e Orietta Berti, arrivato dopo il terzo Sanremo (non in gara ma da superospite: era l’edizione dei “quadri”), ed Achille Lauro era effettivamente un nome di punta dell’intrattenimento, musicale e non. E così Prime Video lo arruolò come concorrente della seconda edizione del reality Celebrity Hunted, testimonial pubblicitario, guest star in due serie (la fluida Prisma e la comedy Pesci piccoli). E poi?
E poi basta così, un po’ come la parabola stessa di un artista che a cavallo tra i due decenni è stato iperattivo e multiforme, oggetto del desiderio e bersaglio facile dei benpensanti, in un perpetuo oscillare tra reinvenzione e rimasticatura, e che a poco a poco si è sgonfiato, vuoi per sovraesposizione mediatica (quattro Sanremo in cinque anni), vuoi per scelte poco oculate (la partecipazione all’Eurovision tramite San Marino), vuoi per affanni creativi (la rincorsa della bomba pop).
Tutto questo resta rumore di fondo in Ragazzi-madre: L’Iliade, il docufilm autoagiografico (prodotto, scritto, diretto dal soggetto stesso) che arricchisce l’ormai ricca collezione cinemusicale di Prime Video (si vedano le analoghe produzioni in gloria di Tiziano Ferro, Elodie, Emma, Mahmood, Blanco). Lauro (all’anagrafe De Marinis) ripercorre dieci anni di carriera, dai problemi familiari che lo portano lontano da casa (l’irrisolto conflitto con il padre come un macigno) alla scoperta dell’underground grazie alla convivenza con il fratello.
La cronologia è lineare: le prime esperienze nel rap influenzate dai retaggi melodici, le collaborazioni con Marracash, Noyz Narcos e Gemitaiz che lo mettono in luce come nuovo nome della scena, il successo dirompente di Thoiry, il salto all’Ariston, il rapporto con la moda, la restituzione tramite azioni benefiche (il momento più commovente: un ragazzino che canta C’est la vie, capo d’opera dell'artista). A ricostruire l’epopea è lui stesso (seduto su un palco dando alle spalle a una platea vuota) insieme ad amici e collaboratori, da quelli del Quarto blocco mixtape, la crew romana che lo accompagna nell’ascesa urban, alle figure che lo seguono nella seconda più pop come lo stylist Nick Cerioni.


Achille Lauro a Sanremo 2020 (Webphoto)
La retorica non manca e il titolo lo conferma, anzi lo rivendica: se Ragazzi madre cita l’album della svolta (con il sodale Boss Doms), il riferimento omerico è dovuto al nome d’arte, cioè quell’Achille la cui madre cerca di salvarlo dal destino da guerriero. È una caratteristica del cantante, quella di collocarsi in un orizzonte più grande, ora spericolata ora vanagloriosa, da leggere in parallelo con l’autonarrazione del miracolato, il sommerso che si è salvato, il “ragazzo fuori” diventato imprenditore. Paradossalmente a Ragazzi-madre manca proprio l’afflato epico, la mitologia si immola sull’altare della mitografia, lo sviluppo sembra ricalcare quello di tanti altri film edificanti. Dove si perde, per assurdo, è all’apice della tensione: c’è un bel lavoro di montaggio nel racconto della performance sanremese di Me ne frego, ma c’è anche troppa consapevolezza compiaciuta, troppe spiegazioni didascaliche, troppo mistero disvelato.
È un po’ lo stesso percorso da “icona”, cioè l’immagine sacra, quindi di per sé inaccessibile e perciò carismatica, a “iconico”, ovvero l’aggettivo che spiattella tutto ciò che dovrebbe essere comunicato indirettamente. Due anni dopo quell’accordo, in un’altra fase della carriera di Achille Lauro, ci sembra che Ragazzi-madre dica questo: lì dove c’era un artista capace di giocare con il concetto di “icona” ora c’è un imprenditore che si preoccupa solo di quanto può essere iconico il suo lavoro. Lui dice che non può più parlare di periferie perché ormai tocca ad altri ragazzi. Ma noi lo aspettiamo, non solo perché banalmente è molto bravo, ma anche perché la sua voce è più intonata quando non parla così esplicitamente di sé.