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Argo
Lo chiamano nuovo disordine globale. Ucraina, Palestina, Siria, Yemen, Corno d’Africa, Nagorno-Karabakh. Piccoli grandi fuochi che divampano e si spengono lungo meridiani di sangue. Clima ovunque pessimo. Parola Pace divisiva. Terra agli incendiari. Fragili democrazie africane cadono sotto i colpi del jihadismo. Tensioni sul Mar Cinese. Appetiti su Taiwan. I giochi di Kim Jong Un. L’Iran degli ayatollah. Putin. Lancette della Storia all’indietro. Sogni imperiali.
Il dopo pandemia è un virus più violento, tracimante, totale. Sette ottobre. Massacro di Hamas nei kibbutz israeliani. Calcolo premeditato di azione e reazione, perché il demone della guerra gioca a specchio. Israele fa di Gaza un assaggio di apocalisse. Conta stanca delle vittime, sangue che macchia torti e ragioni.
Il contagio si nutre di mitopoiesi fiacche ma sempre efficaci: Oriente vs. Occidente, Dispotismo vs. Democrazia, le solite guerre sante. La violenza ridesta società sonnambule. Sdoganata da politici e incantatori d’odio, sferrata da lupi solitari. Le città dell’Ovest sono stanche e impaurite, rabbiose e polarizzate. Non sanno più distinguere aggressori e aggrediti. L’anno è nuovo e logoro al tempo stesso. Le elezioni americane un inquietante crocevia. Altre ombre: le sfide globali poste dal cambiamento climatico e dall’avvento dell’intelligenza artificiale. Servirebbero risposte comuni perché il mondo resta connesso. Ma se la pax americana vacilla e l’Europa batte la fiacca, gli organismi internazionali non se la passano meglio. L’ONU la fotografia della paralisi. Parole come dialogo e diplomazia ai minimi storici.
Parlare di cinema di fronte a tutto questo può sembrare marginale. Eppure, viviamo anche dentro una profonda crisi d’immaginario. Faticano a emergere visioni nuove. Come se il cul de sac delle grandi narrazioni fosse spia e concausa del vicolo cieco in cui si è infilato il mondo. La caduta della grandi saghe americane, Marvel in testa, cos’è se non sintomo di un appannamento che coinvolge l’identità stessa della superpotenza americana? L’incapacità di ripensare le proprie strategie discorsive tradisce l’abdicazione di quella politica per immagini che in passato, se pure con le ambiguità e le controindicazioni del caso, è stata decisiva nella gestione di altre crisi.
Quando si pensa al soft power cinematografico ci si ricorda solo dei suoi aspetti più deleteri, in uno schema di egemonia culturale. Ci si scorda del contributo alla politica del disgelo, dalla Hollywood Diplomacy del “dopo Muro” alle aperture al cinema sovietico della Mostra di Venezia del dopoguerra; della riabilitazione, ai primi anni Sessanta, delle opere di Romm e Cukhraj, di Alov e Naumov, fino a Tarkovskij. Di Milos Forman, che traghetta da Est a Ovest il suo cinema di opposizione tanto al socialismo reale quanto al culto dell’individuo.
E che dire, sempre restando a Hollywood, del lavoro di riparazione fatto sui nativi americani (lavoro che continua ancora oggi: Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese)? O, nella prima fase della globalizzazione, della penetrazione nel mercato cinese dei kolossal stelle e strisce e di star di Pechino nei kolossal americani?
Ancora il cinema americano, per come ha saputo riassorbire il trauma dell’11 Settembre disinnescando, con la fiducia rinnovata nei propri valori fondativi, il rischio di uno scontro di civiltà. La produzione di quegli anni (da La 25ª ora a Inside Man passando per L’ospite inatteso) ha lavorato in profondità sul concetto d’identità in relazione con. È possibile immaginare qualcosa di analogo oggi? Domanda da cui muove la prima cover story dell’anno. Partendo dalla scena per antonomasia del conflitto, la Palestina, perché come ha scritto Bernard-Henri Lévy, tutto inizia e finisce a Gerusalemme. Solo tre anni fa premiavamo al Tertio Millennio un film israeliano, Abu Omar di Roy Krispel, che sosteneva come l’incontro fosse più naturale dello scontro.
Sempre al Tertio Millennio, ma quest’anno, abbiamo ospitato un convegno sul dialogo interreligioso attraverso il cinema. Relatori di fedi diverse, ebrei e musulmani compresi. Sono emerse indicazioni interessanti su come il cinema lavora, anche non volendo, a favore della diplomazia culturale. Non a caso sono stati citati titoli apparentemente “slegati” dal tema come Le onde del destino di Lars von Trier e Dead Man di Jim Jarmusch. Come lo sdoppiamento e l’identificazione inneschino meccanismi di apertura e riconoscimento. In una dinamica che ripensa ogni volta la soggettività a partire dall’alterità. Non dunque il falso movimento della tecnica, ma il moto trasformativo di un linguaggio in cui il taglio è premessa di un’unità più grande. Potremmo forse ripartire da qui.