Al Festival di Cannes, in occasione dei venticinque anni della morte del regista di Au Hasard Balthazar e dell’istituzione del riconoscimento a lui intitolato, Eugène Green riceverà il Premio Robert Bresson Speciale. La cerimonia si terrà martedì 21 maggio, ore 11 presso l’Italian Pavilion. Pubblichiamo una riflessione di Green, scritta per la Retrospettiva Robert Bresson de La Rochelle International Film Festival (2018).


Non si deve rappresentare la vita con la copiatura fotografica della vita, ma con le leggi segrete in mezzo alle quali si sentono muovere i tuoi modelli.
Robert Bresson, Note sul cinematografo (Gallimard, 1975)

È un’occasione unica poter partecipare a una retrospettiva di Robert Bresson e vedere in tempi ravvicinati e in buone condizioni tutti i suoi tredici film. Nell’opera di Bresson in particolare, più che in altri registi, le diverse parti si richiamano l’una all’altra. Una tale proposta offre allo spettatore di seguire lo sviluppo di un linguaggio unico, di constatarne la coerenza e di confrontarsi con un pensiero profondo e originale sul cinema, lo stato del mondo, e il senso della nostra esistenza.

Bresson è uno dei rari cineasti, come Ozu, che ha rapidamente trovato nella sua carriera un linguaggio cinematografico specifico e immediatamente riconoscibile che potremmo definire, come per i pittori, una maniera, e l’ha utilizzato fino al suo ultimo film. Ne troviamo il desiderio di esprimersi nel suo primo film, La conversa di Belfort (Les anges du peché), ne constatiamo una provvisoria dormienza in Perfidia (Les Dames du bois de Boulogne), e ne accogliamo di nuovo un’apparizione in sembianze riconoscibili ne Il diario di un curato di campagna (Le journal d’un curé de campagne). Infine, nel suo quarto film, Un condannato a morte è fuggito (Un condamné à mort s’échappé), uscito nel 1956, la maniera bressoniana si presenta nella sua forma più completa.

Lui stesso l’analizza e la spiega molto bene nella sua opera, divenuta un classico, Note sul cinematografo (Notes sur le cinématographe), e in una raccolta postuma di interviste curata da Mylène Bresson. Si tratta di una serie di principi che formano un insieme omogeneo, proveniente dalla specificità dell’arte del cinema, o meglio, per utilizzare un termine più antico e caro all’autore, del cinematografo che rappresenta per lui una scrittura composta da immagini e suoni catturati nel mondo materiale, e capaci di rendere comprensibile ai sensi ciò che altrimenti non potrebbe esserlo.

Una delle sue idee determinanti, è quella che bisogna fare suscitare l’immaginazione dello spettatore, permettendogli di accedere a un altro livello di realtà, benché, nel pensiero cartesiano, l’immaginazione provenga per definizione, dalla dimensione dell’irreale. Per quanto riguarda la narrazione, questo punto di vista valorizza l’elisse affinché lo spirito di colui che guarda riempia gli interstizi del racconto per creare delle connessioni tra gli elementi rappresentati. Questo stesso principio sostiene, nella composizione delle scene, la sineddoche, per cui si mostra una sola parte del soggetto, ovvero quella essenziale, come i piedi o le mani di un personaggio in modo che sia l’immaginazione a stabilire l’azione nella sua globalità.

Un condannato a morte è fuggito
Un condannato a morte è fuggito

Un condannato a morte è fuggito

(Webphoto)

L’estetica dei Modelli

Un altro elemento del linguaggio bressoniano e che troviamo interamente rispettato a partire da Un condannato a morte è fuggito, è la scelta di “persone” al posto di attori professionali che l’autore finirà per definire come “modelli”. Questa decisione, sicuramente indotta dalla sfortunata esperienza di Perfidia, è coerente con l’idea che il cineasta sia l’unico autore dei suoi film in modo tale che, una volta conclusa l’opera, la presenza di questi esseri sia reale quanto quella di un soggetto umano su una tela di un grande pittore, ma in tutti e due i casi, questo risultato non dipende dalla volontà del modello, ma da quella dell’artista. Seguendo la stessa logica, rinunciò a dei dialoghi troppo “letterari” come quelli che Cocteau scrisse per il suo secondo film, privilegiando le repliche che lui stesso scriveva che anche se non tendevano a un linguaggio naturale, erano di una semplicità misteriosa.

Per gli stessi motivi, si rifiutava di utilizzare “una recitazione” tradizionale, privilegiando un modo di interpretare il testo che bandisse le intonazioni come traduzioni di un sentimento o uno stato d’animo del personaggio. Diceva di voler bandire la teatralità, ma faceva allusione a un teatro che conosceva, quello che vediamo sempre, dove gli attori utilizzano una serie di intonazioni codificate che risultano sfalsare la lingua parlata, anche se ambiscono ad essere “naturali”. La recitazione bressoniana è stata ingiustamente definita “neutra” o “monocorde”; invece, lui rifiutava qualsiasi tentativo di “costruzione psicologica” ed esigeva dal modello che si facesse attraversare dalle parole suscitando in lui emozioni, senza nessuna volontà o consapevolezza da parte sua.

Un cinema sonoro

Il suono spesso considerato come il parente povero del pensiero cinematografico era per Bresson importante quanto l’immagine. Infatti, considerava la colonna sonora come una composizione musicale, cosi, sebbene in Diario di un ladro (Pickpocket), l’utilizzo della musica sia molto discreto e efficace, nella maggior parte dei suoi film c’è un’assenza totale di musica o di qualsiasi altro suono “parassitario”, che non rappresenti una parola o un rumore espressamente voluto dall’autore. Pensando che questo ideale di purezza sonora fosse impossibile da ritrovare nei posti dove sceglieva di girare, alcune parti dei suoi film venivano post sincronizzate, ottenendo cosi, nei modelli, l’esatta riproduzione del suono diretto, aggiungendo degli effetti sonori, tecnica che prediligeva. Alcuni dei suoni bressoniani sono indimenticabili, come il cigolio della bici della guardia in Un condannato a morte è fuggito che simboleggia il trascorrere del tempo e allo stesso tempo gli ostacoli che il prigioniero deve affrontare, o ancora le campanelle delle pecore nell’ultima scena di Au hasard Balthazar, manifestazione fisica di una presenza invisibile.

Au hasard Balthazar
Au hasard Balthazar

Au hasard Balthazar

(Webphoto)

Il problema del Male

Come un vero artista, Bresson aveva un punto di vista sul mondo del quale faceva parte. L’ha espresso nei suoi film, senza manipolazione concettuale (come molti film che si dicono “impegnati”), ma attraverso una visione globale della condizione umana, resa attraverso i mezzi specifici della sua arte, e legata irrimediabilmente all’epoca nella quale ha vissuto. Questo conferisce al suo pensiero una dimensione universale e rende i suoi film, a differenza di molti altri film contemporanei alla sua epoca, immutabili nel tempo. Un tema che attraversa sin dalle origini tutta la sua opera e che non stupisce in un artista così vicino alla cultura cristiana, è quello del Male nel mondo. La conversa di Belfort, girato durante l’Occupazione, si svolge tra le mura di un convento, ma il male che è all’esterno penetra all’interno. Giovanna d’Arco che ha realmente sentito una voce divina, è schiacciata da una dinamica di forze politiche. Il Diavolo probabilmente presenta un mondo dove la natura si distrugge e i sentimenti e Dio non trovano più il loro posto, mentre ne L’argent, è l’ingiustizia provocata da una banconota falsa di un giovane borghese a generare il Male. In questi casi, secondo la logica universale del sacro, la risposta è quella di un sacrificio, ma negli ultimi due film, dai toni scuri, non è per niente evidente che ne derivi una purificazione.

Il giansenismo

Alcune persone che non conoscono nulla del giansenismo e che lo concepiscono come un’ideologia che impedirebbe loro di godere senza ostacoli, hanno qualificato l’estetica di Bresson, “gianseista”. Ma Bresson è forse port-royalista, o comunque pascaliano, in relazione alla questione della Grazia. Nei suoi film, la Grazia è sempre un mistero, e sempre “efficace” permettendo a un essere di arrivare fino in fondo al suo destino. Per Grazia, non solamente il Luogotenente riesce ad evadere ma rinuncia anche ad uccidere Jost. Anna Maria, il parroco di Ambricourt, Giovanna d’Arco, tutti, a un certo punto, ricevono e accettano una Grazia infallibile. La Grazia prende anche un’altra sembianza, la Santità, che permette a colei o colui in cui si manifesta di attraversare il Male senza ignominia, e di ottenere la redenzione con il sacrificio. È il caso di Mouchette, dell’asino Balthazar, e dell’anziana signora ne L’argent.

Il diario di un curato di campagna
Il diario di un curato di campagna
regista_Robert Bresson Claude Laydu (Webphoto)

L’eredità del regista

L’influenza di Bresson è stata immensa. Bresson ha definito la specificità del cinematografo in modo così assoluto che ogni altra riflessione su quest’arte deve necessariamente iniziare da lui e deve essergli grata. Cineasti così diversi come Tarkovskij e Godard hanno intrepretato la sua originalità in modo giusto, ma con grande difficoltà riusciamo a riconoscere la sua influenza in alcuni fabbricanti di “moventi” (letteralmente i movies, vocabolo con il quale gli abitanti del Nuovo Mondo designano i loro prodotti audiovisivi) che dicono inspirarsene. Ma soprattutto, ha creato delle opere tra le più importanti nella storia del cinema, con immagini che rimangono inscritte nella memoria collettiva: le mani di Fontaine, Michel e Jeanne che si guardano attraverso le sbarre, le lacrime di Giovanna d’Arco, Balthazar che muore tra le pecore. In una civiltà materialistica che escludeva gran parte dell’esperienza umana, Robert Bresson ha avuto la genialità di vedere il cinematografo nel suo aspetto più concreto, e di farne un cammino per avvicinarsi all’ineffabile.

Qualcuno mi diceva: «Al cinema, abbiamo fatto tutto». Il cinema è immenso. Non abbiamo fatto niente.
Robert Bresson, Interviste 1943-1983 (a cura di Mylène Bresson).

Si ringrazia per la traduzione Francesca Bolognesi