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Lea Massari in Allonsanfàn
È un nome d’arte, Lea Massari. Destino comune ad altre ragazze della sua generazione: quando arrivano al cinema, assumono altre identità. I loro nomi devono evocare esperienze fuori dall’ordinario, che siano legate a suggestioni esotiche (Sophia Loren, calco della svedese Märta Torén) o sensuali (Eleonora Rossi Drago, più elegante dell’originale Eleonora Palmira Omiccioli, ma anche Sandra Milo pensando alla celebre Venere), a testimoniare la magia, la potenza, l’unicità del grande schermo
A differenza di altre colleghe, Anna Maria Massatani, una romana nata nel quartiere di Monteverde Vecchio, si ribattezza da sola, senza l’intervento di pigmalioni pronti a plasmarla secondo le esigenze del mercato (e quelle personali). Il cognome lo modifica sensibilmente, sostituendone la seconda metà con una sillaba più facile, “ri”.
Il nome, invece, lo relega al privato, quasi a volerlo proteggere dalla gioia effimera – dunque pericolosa – del cinema. Che è un lavoro, oltre che – o addirittura prima che – un piacere. E così Anna Maria diventa Lea, nome breve e d’impatto, anche sprovincializzato (elemento che le torna utile quando diventa la nostra attrice più richiesta in Francia), scelto in memoria di un fidanzato, Leo, che muore prematuramente in un incidente stradale pochi giorni prima del matrimonio.
Da questo dolore nasce una carriera ostile ai compromessi, fatta di film selezionati con attenzione, che somiglia completamente a quest’attrice randagia e inafferrabile. Che, a un certo punto, decide di chiudere il cinema (e la televisione). A cinquantasette anni. Lea si mette da parte e torna Anna Maria.
Qualcuno ci prova a sottrarla alla pensione, come Ferzan Özpetek che pensa a lei quando, nel 2005, scrive Cuore sacro, salvo rendersi conto che per la signora il ritiro non è negoziabile: poco male, i due si fanno simpatia, si scambiano affettuosità e condividono l’amore per il Brasile. Può sembrare un dettaglio (ma anche no, perché Lea Massari è una che ha contribuito a far conoscere la musica brasiliana in Italia), però dà l’idea di una personalità forte, dominata da una convinzione ben radicata: la vita viene prima. La vita e i suoi affetti.
Non recita da trentatré anni, Lea Massari. Il suo ultimo film, Viaggio d’amore, sembra già una dichiarazione d’intenti, con due anziani montanari (il partner in scena è Omar Sharif) che si incamminano verso quel mare che non hanno mai visto. Ci sono generazioni che non hanno idea di chi sia quest’attrice per la quale sembrano aver inventato la parola “conturbante”: poco ricordata dai colleghi di ieri e di oggi, riottosa alle celebrazioni agiografiche, pigramente rimossa dal novero delle nostre dive.
Il 30 giugno, senza quelle fanfare – siamo sicuri – poco gradite dunque da sabotare, compie novant’anni. La immaginiamo come abbiamo imparato ad amarla, nelle storie che ha abitato e nelle rare interviste concesse, dove è impressionante scoprire nelle parole della donna la complessa emanazione dell’attrice: “Io fino a oggi – dice a Oriana Fallaci nel 1964 – sono stata una persona innamorata di due sole cose: della rissa e dell’amore. E così ho passato la vita ad alzar barricate, a battermi con forsennati come me: innamorati della rissa e dell’amore come me”.
Si intravede bene in Proibito (1954) tratto da La madre di Grazia Deledda, debutto involontariamente benedetto da Piero Gherardi, il geniale scenografo e costumista che la vuole sul set come assistente visto che la ragazza ha fatto studi artistici. “Cercavo disperatamente un lavoro, qualcosa che mi stordisse”, rivela a Fallaci: è qualcosa che, forse, salta all’occhio di Mario Monicelli, che ne rimane colpito e la convince a recitare. E, improvvisamente, Anna Maria diventa Lea, ventunenne e già così austera e sensuale nel ruolo di una ragazza divorata dal conflitto e dalla vergogna dato che si è innamorata di un prete. In realtà Anna Maria vorrebbe chiuderla là, il rapporto con Monicelli non sembra idilliaco, la famiglia borghese non è proprio entusiasta di quella carriera.
Poi arriva Renato Castellani (“così perbene!” lo ricorda l’attrice) e il personaggio che ha in serbo per lei sembra cucito su misura, un’eroina popolare che arricchisce la galleria delle memorabili figure femminili del regista: Lucia, una provinciale volitiva e intraprendente, studentessa controvoglia di chimica che sfida i genitori, si sposa con un bravo ragazzo aspirante medico e muore dando alla luce una bambina. Il film è I sogni nel cassetto (1957), tra i vertici del cinema sentimentale italiano, e parrebbe la consacrazione di un’attrice risoluta e romantica, consolidata un anno dopo da un Capitan Fracassa televisivo (cast incredibile guidato da Arnoldo Foà e costellato di belle speranze come lei: Giulia Lazzarini, Warner Bentivegna, Nando Gazzolo…), presenza fresca e sorprendente nonché un tipo femminile meno burroso di Marisa Allasio e meno algido di Silvana Mangano.
Eppure, anche qui, sembra non essere del tutto persuasa. Anna Maria prevale su Lea: più che il mestiere, non le piace l’ambiente, non intende sottostare alle richieste del produttore Angelo Rizzoli, rifiuta un contratto della Paramount che la vorrebbe lanciare a Hollywood, disprezza chi prova a ridurla a merce (di scambio). Si muove come un cane sciolto, Lea Massari: decisa più che ribelle, in direzione ostinata e contraria alla labile promessa di un successo facile, per nulla accomodante.
Non le manca il coraggio, perfino l’incoscienza, come quando accetta l’offerta di Michelangelo Antonioni: quante attrici della sua generazione, in un momento così delicato della carriera, nel crinale tra rivelazione e affermazione, avrebbero accettato di entrare in un film come protagoniste per poi, mezz’ora dopo, sparire all’improvviso? Nauseata da tutti, Anna si dissolve; ma s’inciampa continuamente nella sua assenza. Un po’ perché è un personaggio che mette a disagio tutti coloro che hanno a che fare con lei. E un po’ perché, nell’epocale L’avventura (1960), Lea Massari è un corpo contundente, una mina vagante, una presenza scomoda (quindi meglio farla fuori…). Anche sul set: “Me l’ha insegnato Antonioni cosa vuol dire incomunicabilità: la sua intelligenza, il suo humour non ti scaldano neanche la superficie della pelle” spiega alla solita Fallaci, urticante e schietta.
Animale raro in un mondo pieno di adulatori, Massari non si rende la vita facile. Su sessanta crediti tra grande e piccolo schermo, i registi che la dirigono sono ben cinquantacinque, ventinove gli italiani. Non è contabilità ma sostanza. Balla da sola, senza padrini né patroni: non si lega a un produttore, non è la musa di alcun autore, non bazzica le cronache mondane, non piega il gossip a suo favore.
Sceglie, osa, si lancia oltre gli ostacoli: esalta la romanità verace nel moraviano La giornata balorda di Mauro Bolognini (1960); si adatta alla corale scalmanata e dolente del capolavoro di Nanni Loy, Le quattro giornate di Napoli (1962, doppiata da Clara Bindi); vola in Spagna per uno dei primi film di Carlos Saura, I cavalieri della vendetta (1963); si concede addirittura in uno spaghetti western, Lo voglio morto di Paolo Bianchini dove fa una messicana (1968).
Battezza registi, molto diversi tra loro, dal già magniloquente Sergio Leone nel sandaloni Il colosso di Rodi (1961) al pre-sessantottino Silvano Agosti ne Il giardino delle delizie (1967), passando per l’unica sortita cinematografica di Indro Montanelli ne I sogni muoiono all’alba, kammerspiel sulla Rivoluzione ungherese in cui canta anche la title track (1961, David speciale e Grolla d’Oro per la miglior attrice) e il felliniano Moraldo Rossi nel dimenticato La coda del diavolo (1964).
Azzarda: brilla nella commedia all’italiana al suo massimo splendore, Una vita difficile di Dino Risi (1961), in cui è la moglie di Alberto Sordi, tanto innamorata e affettuosa quanto esausta per le troppe rigidità ideologiche del marito (ma quel finale liberatorio, tra gli apici del nostro cinema, si ricorda anche per gli sguardi, malinconici e complici, tra i due coniugi ritrovati). E manca l’appuntamento con Federico Fellini, causa provino insoddisfacente per 8 e ½, per colpa – sostiene Massari – del mentore Gherardi (la parte finisce a Anouk Aimée ma lei non se ne duole).
Rilancia: in teatro si trova pronta alla svolta pop di Rugantino di Garinei e Giovannini (1962), la commedia musicale più celebre e importante della nostra storia dove, accanto ai mostri sacri Nino Manfredi e Aldo Fabrizi, esplode nei panni di Rosetta, “bona de core e bona de tutto”, e pare che l’iconica beguine Roma nun fa’ la stupida stasera sia stata scritta pensando a lei; e negli sceneggiati sfonda l’immaginario televisivo, quando come Monaca di Monza appare dietro le sbarre della cella in cui ha rinchiuso il suo cuore ne I promessi sposi di Sandro Bolchi (1968).
E scommette: va in Francia, che di lì a poco diventa sua seconda – o forse prima – patria artistica, e grazie allo splendido Il ribelle di Algeri di Alain Cavalier (1964) trova il bellissimo ruolo di un’avvocata che si mette in fuga con il traditore e disertore Alain Delon. Con il divo francese la chimica è innegabile, perché in entrambi il romanticismo sconfina nel dolore e l’amore ha a che fare con la morte, come dimostra il loro secondo incontro, indimenticabile, ne La prima notte di quiete (1972), in cui Massari è la depressa e nevrotica moglie di Delon.
Alla regia Valerio Zurlini, uno che teoricamente è nelle sue corde, tra i pochi a dirigerla in più di un’occasione nonostante una prima, Le soldatesse (1965), in cui l’attrice è stranamente ridotta a poco più che comprimaria. Ma alla seconda collaborazione, comunque turbolenta, lei, quasi quarantenne, dona un’interpretazione devastante, nella quale collimano il disprezzo e il ricordo, la violenza e il desiderio, e peccato che, nell’edizione italiana, non si senta la sua voce ma quella di Valeria Valeri. Qualche incomprensione con l’autore (valentissimo direttore del doppiaggio), ma forse anche un progressivo distacco di Massari dal cinema italiano verso la rotta francese, che l’accoglie a braccia aperte regalandole possibilità impareggiabili, peraltro in un momento in cui le sue coetanee devono accontentarsi per non eclissarsi (pensiamo a Lisa Gastoni).
È un vertice del triangolo amoroso su cui si edifica L’amante di Claude Sautet (1970) con Michel Piccoli (partner ideale: tre volte insieme) Romy Schneider, donna del bandito in La corsa della lepre attraverso i campi di René Clément (1972), figura quasi hitchcockiana in Le femme en bleu di Michel Deville (1972) e soprattutto la mamma incestuosa e vitale di Soffio al cuore (1971), fortemente voluta da Louis Malle malgrado le imposizioni dei produttori (e lei, con un ingaggio quasi simbolico, lo cita sempre come il suo film del cuore).
E se la Francia la onora, l’Italia sa renderla protagonista solo in televisione, con l’amico Bolchi che la chiama per I fratelli Karamazov (1969) e naturalmente Anna Karenina (1974) e Marco Leto che esalta il suo carisma per Quaderno proibito (1980) tratto da Alba de Céspedes e Una donna spezzata (1988) da Simone de Beauvoir.
E il cinema? “Lavoro per eliminazione” confessa a Fallaci, e diventa la non protagonista ideale in film mai trascurabili: l’amante dell’ex giacobino in Allonsanfàn dei fratelli Taviani (1974), la cognata di Antonio Gramsci in I giorni del carcere di Lino Del Fra (1977), la sorella di Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli di Francesco Rosi (1979, Nastro d’Argento), la memorabile mamma della terrorista in Segreti segreti di Giuseppe Bertolucci (1984), generosa e fragile, che non sa vedere l’evidenza e patisce il dolore della sorpresa con un gesto radicale.
E poi? Il ritiro, l’attivismo animalista, una manciata di apparizioni senza assecondare i feticisti del revival. Lea è tornata Anna Maria. Parlarne al passato è istintivo, forse inevitabile. Ricondurla nel presente, una necessità.
Ha scritto André Breton: “La bellezza sarà convulsiva o non sarà”. Lea Massari lo è.