È stato presentato all’ultimo Festival di Cannes, La storia di Souleymane, nella sezione Un Certain Regard, dove ha ricevuto due riconoscimenti: il Premio della Giuria e quello per il Migliore attore. Che si chiama Abou Sangare, come il protagonista del film, è arrivato dalla Guinea per cercare lavoro ed è ancora sprovvisto di documenti. Sangare, che nella vita quotidiana è un meccanico, non ha mai fatto il rider, il lavoro con cui Souleymane tenta di trovare i soldi per sopravvivere in una Parigi che mette ai margini gli immigrati, ma anche per comprare certe carte utili per ottenere lo status di rifugiato politico.

“Il casting è stato lungo – spiega il regista e sceneggiatore Boris Lojkine – perché cercavo qualcuno che fosse davvero rider. Poi, nel nord della Francia, abbiamo trovato Abou, che ha molte cose in comune con Souleymane. E così il personaggio si è alimentato della sua storia e di quella degli altri attori”.

È il terzo lungometraggio di fiction per Lojkine – che accompagna il film nelle anteprime che precedono l’uscita ufficiale del 10 ottobre con Academy Two – che ha alle spalle una forte esperienza nel documentario: “La realtà resta alla base del mio lavoro: la raccolta dei materiali, le interviste, i racconti di vita che sono diventate scene del film. A volte abbiamo lavorato con un centinaio di persone, come nelle sequenze al centro d’accoglienza, e non è stato facile da gestire. Ma la troupe era leggera, in alcuni giorni eravamo in quattro o cinque, al di sotto degli standard delle produzioni di fiction. Era l’unico modo per restituire la verità”.

Lojkine segue il suo eroe in una odissea urbana di 48 ore: “Non abbiamo mai interrotto la vita della città, il traffico è autentico così come il passaggio di autobus e metro”. La storia di Souleymane arriva in un momento storico in cui la questione delle migrazioni è ineludibile: “Il contesto ci impone di raccontare queste storie che avvengono ai margini della società. Il nostro compito è ridare l’umanità a quelle persone che la cronaca e la politica tendono a svuotare, riducendo i migranti a figurine disumanizzate. Non voglio lanciare messaggi ma far vivere un’esperienza anche fisica accanto al protagonista e alla sua bicicletta. E il finale ha questo obiettivo: non do risposte, mi interessa che il pubblico si ponga domande”.

Inevitabile il confronto con un film fortunato come Io capitano di Matteo Garrone, che sembra finire dove Souleymane comincia: “Quando ci si impadronisce di un argomento del genere – riflette il regista – bisogna essere coerenti. Una storia come questa ci impone di abbandonare il punto di vista degli uomini bianchi e di immedesimarci, metterci in ascolto con umiltà. Io penso di esserci riuscito: è un film difficile ma mi ha reso felice. Perché c’è coerenza nella storia, nel casting, nella troupe, nel modo in cui si sono spesi i soldi. La coerenza è indispensabile”.