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Piccolo corpo
Che cosa può dare speranza a chi piange un figlio nato morto, una delle sventure più grandi che si possano abbattere su una persona umana? Per chi ha fede, forse resta solo la speranza che la piccola creature sia stata accolta fra le braccia misericordiose del Padre.
Eppure fino a non molto tempo fa nella Chiesa cattolica vigeva la dottrina teologica del “Limbo”, secondo la quale esisteva una condizione temporanea delle anime appartenute a persone buone morte prima della resurrezione di Gesù (Limbo dei Padri o Sheol) e che tale condizione era considerata permanente per i bambini morti ancora non battezzati, che non hanno commesso dunque alcun peccato personale, ma non sono stati liberati dal peccato originale attraverso il sacramento del battesimo (Limbo dei Bambini). Nel 2007 la Commissione teologica internazionale, organismo costituito all'interno dell’allora Congregazione per la Dottrina della Fede, ha pubblicato un documento ufficiale approvato da papa Benedetto XVIsecondo cui il tradizionale concetto di Limbo riflette una «visione eccessivamente restrittiva della salvezza», che non trova nessun fondamento esplicito nella rivelazione, nonostante sia entrata da lungo tempo nell'insegnamento teologico tradizionale.
Un messaggio di autentica speranza, ahimè ben lontano nel tempo dalla vicenda narrata in Piccolo corpo (2021), film di debutto di Laura Samani, premiata come miglior regista esordiente ai David di Donatello e come European Discovery of the Year agli European Film Awards, e presentato in concorso alla Settimana Internazionale della Critica al 74° Festival di Cannes.
Protagonista della pellicola è Agata, giovanissima donna friulana di un piccolo villaggio di pescatori lagunari di fine Ottocento o primi del Novecento, la quale non si rassegna all’idea che la propria figlia, nata morta, si trovi nel Limbo perché impossibilitata dalla legge canonica ad essere battezzata. Venuta a conoscenza che nelle montagne innevate della Val Dolais c’è una chiesa in cui risvegliano i bambini nati morti giusto il tempo di quel respiro necessario per il battesimo, Agata intraprende un viaggio impervio e irto di ostacoli, nel quale sarà affiancata da Lince, personaggio ambiguo ed enigmatico che però conosce tutti i segreti della montagna.
Agata, interpretata dall’esordiente Celeste Cescutti, cerca disperatamente un miracolo, che per lei equivale a quella indomabile speranza che le dà vita. Il suo corpo giovane e minuto, ferito dalla morte e segnato dal latte che il suo seno continua a produrre, custodisce la scatola di legno che contiene le spoglie della bimba defunta, quasi un tabernacolo che per lei rappresenta la “presenza reale” che sostiene ogni suo sforzo.


Piccolo corpo
Fra le tante immagini evocative, a un certo punto Agata, contro il parere dei minatori stessi, decide di attraversare i cunicoli bui e stretti di una grotta cui nessuno fa mai ritorno: è l’immagine stessa della speranza che cerca un miracolo e ad esso si aggrappa, divenendo capace di percorrere e cercare di superare vie difficilmente percorribili. Agata è figura della speranza indomita, che non si arrende di fronte a un’evidenza. “Farai altri figli”, le ripetono gli abitanti del villaggio, ma per lei esiste solo quella bambina, unica e irripetibile, e la sua determinazione a strapparla dall'anonimato ha una potenza inarrestabile.
Il “piccolo corpo” del titolo non viene incarnato solamente dal cadavere della neonata che la protagonista porta con sé per tutta la sua peregrinazione, bensì deve essere inteso come un concetto che si presta a una lettura stratificata. Il corpo umano è difatti piccolo, quasi minuscolo, rispetto alla monumentalità della natura, la quale è fulgida e personificata come la cultura contadina vuole e troneggia sulle sagome dei fragili umani nei pochi istanti in cui la regia abbandona i long take con la camera a mano che insegue i corpi e prediligi campi lunghissimi che tradiscono i trascorsi documentaristici della regista ma anche il gusto pittorico della fotografia firmata dallo sloveno Mitja Licen.
Più nello specifico, è debole e minuto in particolar modo il corpo dell’isolana Agata, che la sua inflessibile determinazione sottopone a ogni sorta di travaglio lungo il pericoloso viaggio. Samani, con grande maestria e delicatezza, attenua il più possibile l’intensità emotiva che ci si potrebbe attendere da una storia simile, che non sfocia mai in una sorta di “road movie” al femminile, affidando la recitazione – in veneto, friulano e sloveno – quasi solamente a interpreti non professionisti, dei quali sono i gesti e gli sguardi a comunicare le emozioni e i pensieri, concordemente con l’aspro mondo del Friuli rurale di inizio Novecento.
Imbevuto di un gusto pittorico e tradizionale che ricorda Ermanno Olmi (lezione imparata anche da un altro film del Nord-Est come Vermiglio di Maura Delpero), Piccolo corpo è il racconto del viaggio di una piccola eroina che si muove a metà fra religioso e pagano, certa che nessuna speranza potrà in lei essere vinta.