Che cosa può dare speranza a chi cerca verità per una persona improvvisamente scomparsa e di cui non si ha più traccia? La risposta dipende dalle circostanze in cui ciò è avvenuto. Se, infatti, la sparizione è causata da un’ingiustificata incarcerazione in un paese in cui l’autorità politica è rappresentata da un regime di controllo e di terrore, allora di speranza ce n’è davvero poco. È quanto avvenuto in molteplici nazioni del Sud America che, nello scorso secolo, hanno visto l’avvicendarsi al potere di governi autoritari e autocratici, i quali hanno fatto massiccio uso di detenzioni illegali di avversari politici o presunti tali, torture e, quindi, uccisioni, le cui prove venivano fatte sparire insieme ai corpi dei malcapitati, meglio noti come desaparecidos, cercati per decenni dalle proprie famiglie di origine.

Da una vicenda realmente accaduta si muove il maestro brasiliano Walter Salles di ritorno al cinema dopo undici anni di pausa. Già candidato all'Oscar come miglior film in lingua straniera per Central do Brasil (1998), Salles racconta in Io sono ancora qui una delle pagine più dure della storia del suo paese, quelle sparizioni e uccisioni avvenute durante la dittatura militare, di cui tutto il continente latino-americano ancora sta facendo i conti (sul tema vedasi gli ottimi Garage Olimpo di Marco Bechis e Argentina, 1985 di Santiago Mitre).

Ispirandosi all'omonimo romanzo di Marcelo Paiva, viene narrata la drammatica sparizione nel 1971 del padre Marcelo Rubens, ex-deputato socialista, e della straordinaria forza e resilienza della madre Eunice per cercare la verità e insieme proteggere i cinque figli. A dare corpo alla protagonista è una intensa Fernanda Torres, figlia d'arte di quella Fernanda Montenegro, oggi novantacinquenne, che qui ne interpreta la Eunice anziana, e che grazie al già citato capolavoro di Salles divenne la prima attrice sudamericana mai candidata all'Oscar. E la Torres ha superato la madre conquistando, a sorpresa, il Golden Globe come “miglior attrice drammatica” e diventando la seconda attrice brasiliana a ricevere una nomination all’Oscar, una delle tre ricevute dal film insieme a quella come “miglior film internazionale”, risultando felicemente vincitore alla quinta candidatura per il paese sudamericano, e, soprattutto, entrando nella decina del “miglior film”, evento storico per il Brasile.

Presentato in concorso alla 81a Mostra di Venezia, dove ha ricevuto il premio per la “miglior sceneggiatura” firmata da Murilo Hauser e Heitor Lorega, Io sono ancora qui è un affresco di speranza, quello di una donna, moglie e madre che è ben consapevole di cosa sia accaduto al marito, e che cerca un’ammissione di colpa da parte dello Stato, anche quando la dittatura militare viene rimpiazzata dall’attuale sistema democratico. Il suo sperare e insieme lottare con tutte le armi possibili ha la forma della resilienza, in fisica la capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi e, per estensione, in ambito psicologico l’abilità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà.

Io sono ancora qui
Io sono ancora qui

Io sono ancora qui

La regia di Salles attua un progressivo prosciugamento della messa in scena e di graduale cambiamento delle tonalità estetiche. Se all’inizio le scene, ambientate sulle luminose spiagge di Rio davanti al Pan de Azucar con cani che corrono e ragazze che si versano la Coca Cola sulle gambe per abbronzarsi, sono organizzate su piani pieni di personaggi, dai colori caldi, resi ancora più morbidi grazie all’uso della pellicola a 35 mm, dall’istante del sequestro di Rubens, la tendenza muta profondamente. La fotografia si normalizza, in qualche modo si oscura. La presenza degli agenti in casa fa piombare il silenzio e l’opacità sull’abitazione, le inquadrature diventano stabili, i tagli del montaggio rimpiazzano la fluidità immediatamente precedente, in un climax culminante nel momento in cui anche Eunice e la figlia Eliana vengono forzosamente condotte in caserma per essere interrogate.

Il punto centrale di Io sono ancora qui sta tutto nella forza, nella coesione, nella dignità della famiglia Paiva – la cui dimensione borghese è narrata con minuzia come fece Alfonso Cuarón in Roma (2018) con la sua di famiglia – non nella ferocia lugubre e burocratica degli aguzzini di Stato. La brutalità di un regime è, tutto sommato, sullo sfondo, poiché i veri vincitori sono coloro che sono riusciti a rimanere uniti, a non sfracellarsi umanamente ed emotivamente di fronte a una tragedia simile.

Per Eunice, infatti, la forza che le permette di continuare a sperare è data dai cinque figli avuti con Rubens, ai quali cela del tutto o in parte l’amara verità, a seconda dell’età della prole, dimostrando una forza interiore fortissima per non abbandonarsi pubblicamente allo sconforto e alle lacrime. Ai ragazzi la donna, a più riprese, dice di "sorridere", come in una scena piuttosto evocativa e riassuntiva dell’intera pellicola nella quale l’intera famiglia deve posare per la foto di una rivista che ha scritto un pezzo sulla sparizione di Paiva e, alla richiesta del fotografo di mostrare il dolore per l’assenza del padre, Eunice li esorta a mostrare al contrario un bel sorriso. È quasi uno schiaffo all'ignoranza di un regime che crede di poter governare con la forza, la violenza e la menzogna.

Sorridere alla vita diviene, così, l’unica arma rimasta per alimentare la speranza e sopravvivere dentro un dramma che si scioglierà definitivamente solo parecchi decenni più tardi quando la verità verrà finalmente riconosciuta dal governo brasiliano.