Nella lunga, lenta diretta che ha raccontato al mondo il funerale di Papa Francesco, qualcosa di antico e irriducibile ha preso il sopravvento sui ritmi nervosi della comunicazione contemporanea. È stata un’esperienza estetica totale, che ha trasformato il piccolo schermo — quello stesso schermo, per dirla con Pierre Lévy, costantemente preoccupato di “singolarizzare” l’esperienza umana, di frantumarla in microstorie, in innumerevoli monadi vibranti — in una soglia di accesso al senso universale.

In un tempo dominato dall’immediatezza e dal primato dell’individuo, il funerale di un papa, e forse più di ogni altro quello di Papa Francesco, costringe la televisione a piegarsi alla saggezza antica del rito. Gli schemi usuali — l’intervista rubata, il volto commosso, il piccolo aneddoto privato — vengono sospinti ai margini. In primo piano restano le geometrie solenni, l’armonia millenaria della liturgia, la coreografia sacra di corpi e spazi che non celebra un uomo, ma un'idea: quella di una comunità riunita attorno a un mistero che la trascende.

Le telecamere, educate da secoli di riflessi istintivi, si sono trovate a indugiare, come dimentiche di sé, sulle proporzioni solenni di Piazza San Pietro: sulla perfetta simmetria delle file di cardinali, sui drappi immobili come sentenze, sui gesti misurati come preghiere scolpite.

In quella sospensione, nella lenta gravità del rito, lo spazio stesso sembrava dilatarsi oltre la cornice del monitor. Così, mentre il feretro veniva accolto e condotto tra le colonne del Bernini — braccia di pietra spalancate in un abbraccio cosmico —, la morte di un uomo si trasfigurava in parabola della morte di tutti. La sacra armonia dei movimenti, il ritmo antico della preghiera, la ciclicità dei canti, non parlavano più di un singolo corpo, ma di quella fragile e tenace aspirazione umana a significare il trapasso come passaggio, la fine come compimento.

Il funerale-evento, in questo senso, realizza una delle poche esperienze estetiche capaci di travolgere il particolare per restituire l’universale. Una sobria, solenne evocazione dell’immateriale.
Per un istante, il medium televisivo è tornato a essere ciò che il suo nome, in fondo, gli chiede da sempre: ponte, varco, soglia. La televisione, per una volta, non informava: celebrava. Non interpretava: serviva. Come di fronte a un mistero pagano o cristiano, si inginocchiava, riconoscendo che vi sono immagini che non si possono possedere, ma solo abitare.

Anche le figure dei potenti, accorse alla chiamata — Trump, Zelensky — si facevano ombre secondarie, presenze dimentiche di sé. L’immagine dei loro volti nella penombra della Basilica, incontro casuale eppure inevitabile, non aveva il peso dell'attualità, ma si inseriva silenziosamente nel mosaico dell’evento: una tessera in più, e non il centro.

Così il funerale di Papa Francesco si è fatto liturgia non solo del commiato, ma della verità: che l'uomo, da solo, è polvere, ma che nella forma del rito, nella geometria dell’armonia, egli ricorda di appartenere a qualcosa di più vasto di sé stesso. Non è un culto della morte quello che si è celebrato, ma una rarefatta epifania dell’invisibile. Una sobria, solenne evocazione dell’immateriale, resa presente nella precisione dei gesti, nella ieraticità dei movimenti, nella misura del dolore. Come un’eco proveniente da un altro tempo — forse, semplicemente, da un altro modo di essere umani.