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Blonde (Netflix)
Da cosa deriva questo momento di forte difficoltà e incertezza delle piattaforme streaming, in grado magari di aumentare gli abbonamenti, ma poi di avere grandi difficoltà a generare degli utili?
Alla base, qualche anno fa c’è stato il desiderio di seguire la strada di Netflix, che a lungo è stata considerata da Wall Street in maniera molto generosa, come se fosse un’azienda ‘tech’. Basti pensare che, al suo apice, Netflix aveva raggiunto un valore di Mercato di 314 miliardi di dollari (ora è di circa 100 miliardi), superiore anche a quello della Disney. È evidente che tante aziende hanno puntato a ricevere la stessa valutazione in Borsa, obiettivo fallito quando i Mercati hanno posto maggiore attenzione agli utili.
L’altro “peccato originale” è stata la convinzione che il potenziale pubblico dei servizi streaming fosse molto ampio. Reed Hastings, CEO di Netflix, puntava a 500 milioni di case, mentre Jason Kilar, ex amministratore delegato di WarnerMedia, pensava addirittura che si potessero raggiungere un miliardo di abitazioni. Ovvio che, se fosse stato un traguardo ragionevole, tutti gli enormi investimenti di questi anni sarebbero stati sensati.
Purtroppo, gli ultimi numeri forniscono un’altra realtà. Netflix e Disney+ stanno vivendo momenti diversi, ma in entrambi i casi è ormai chiaro che i Mercati più ricchi, in particolare Stati Uniti e Canada, sono saturi e le possibilità di crescita nei prossimi anni in quei territori molto limitate.
Ed è proprio l’ARPU (il ricavo medio per abbonamento) a essere diventato il vero parametro fondamentale per giudicare lo stato di salute di una società. Se è vero che Netflix non riesce a crescere come abbonati nel 2022, è invece chiaro come in questi anni abbia migliorato l’ARPU, portandolo a una cifra vicino ai 12 dollari nel mondo, che se ci limitiamo al Mercato nordamericano diventano quasi 16 dollari. I risultati sono stati un secondo trimestre 2022 che si è chiuso con un utile netto di 1,4 miliardi, rendendo quindi Netflix l’unica società dello streaming a generare profitti.
Discorso molto diverso per le piattaforme legate alla Disney, non solo Disney+, ma anche ESPN+ e Hulu. Si è parlato molto del ‘sorpasso’ di abbonati nei confronti di Netflix, ma la realtà è che (a parte una metrica di calcolo discutibile) in ogni caso gli abbonati a Disney+ valgono un ARPU di 4,35 dollari al mese, a causa soprattutto di più di 50 milioni di abbonati indiani, che generano un ARPU poco superiore al dollaro. E infatti, nell’ultimo trimestre, il settore Direct to Consumer di Disney ha visto una perdita operativa di 1,061 miliardi, mentre nei nove mesi di questo anno fiscale la perdita è di 2,541 miliardi. In questo senso, la grande sfida dell’amministratore delegato Bob Chapek sarà quella di far digerire un aumento notevole (ma indispensabile) dei prezzi nei prossimi mesi.
Anche le altre piattaforme legate alle major hanno problemi simili. Il Direct to Consumer di Warner Bros. Discovery ha perso nell’ultimo trimestre 518 milioni di dollari, con l’ARPU di HBO Max che è di 7,66 dollari nel mondo, mentre quello extrastatunitense è di soli 3,69 dollari, facendo capire che la crescita di abbonati in questi territori non porterà enormi ricavi. Il DTC di Paramount dovrebbe perdere quest’anno circa 1,8 miliardi di dollari, quello di Peacock (di proprietà di Comcast) addirittura 2,5 miliardi.
E tutti questi numeri non tengono neanche in conto di un altro, grande problema: quanto costano questi enormi investimenti a tutti gli altri sfruttamenti di un film o di una serie? Perché se è impossibile quantificare precisamente i danni a settori come il theatrical e l’home video (tradizionale e digitale), è evidente che l’arrivo di un prodotto in una piattaforma in abbonamento (che fornisce l’impressione di vedere quel titolo ‘gratuitamente’) dopo magari 45 giorni significa rinunciare a delle entrate importanti. Alla fine, bilanciare tutti questi aspetti sarà la sfida per le piattaforme nei prossimi anni. O meglio, per quelle che sopravvivranno alle guerre dello streaming…