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28 giugno 1977, La stretta di mano tra Enrico Berlinguer e Aldo Moro
A Piazza San Giovanni sventolano le bandiere rosse, i pugni chiusi sono alzati al cielo. È il 13 giugno 1984. Il grido “Enrico! Enrico!” accoglie il corteo funebre che attraversa la folla immensa, commossa. Le immagini di quella imponente manifestazione di popolo sono impressionanti e testimoniano nitidamente ciò che Berlinguer rappresentava sul piano emotivo e simbolico per i comunisti, e non solo. Tuttavia, superando le emozioni, il giudizio storico è più complesso: nonostante le reticenze e i limiti ideologici, il suo ruolo fu decisivo nell’evoluzione democratica del PCI e contribuì alla tenuta del sistema.
Nato il 25 maggio 1922 a Sassari, Berlinguer aderisce al PCI nell’estate del ’43 e, agli inizi del ’44, viene arrestato durante una manifestazione per il pane che degenera in un assalto ai forni nella sua città. In carcere decide di abbandonare gli studi di giurisprudenza per dedicarsi pienamente all’attività politica. Il padre Mario, avvocato antifascista che nel secondo dopoguerra sarà eletto in Parlamento con il Partito Socialista, lo presenta a Palmiro Togliatti.
È un incontro fondamentale. Berlinguer nel 1949 è nominato segretario della Federazione giovanile. Da lì a poco il monolitismo comunista si incrina: nel 1953 muore Stalin e nel ’56, durante il XX congresso del PCUS, Chruščëv denuncia i suoi crimini e avvia la destalinizzazione. La repressione violenta in Ungheria, però, mostrerà subito i limiti di quel processo e la natura del rapporto dei sovietici con gli stati satelliti. Nel PCI si apre la discussione sulla fedeltà al PCUS.
Intanto Berlinguer ha l’incarico di riorganizzare la scuola quadri del partito. Nel 1964, Togliatti muore a Yalta lasciando il memoriale in cui sostiene la necessità di riforme democratiche nei paesi socialisti. Gli eventi di quello stesso anno, però, vanno in un’altra direzione: Chruščëv è esonerato dagli incarichi e il suo successore, Leonid Brežnev, segue una linea rigida.
Il 21 agosto 1968 i carri armati sovietici entrano a Praga, spegnendo nel sangue la speranza di un “comunismo dal volto umano”. È in questo contesto che Berlinguer, eletto in Parlamento e nominato vicesegretario del PCI, si dimostra propugnatore di una prospettiva democratica al socialismo, che avrebbe dovuto comprendere libertà e pluralismo sociale e politico, pur conservando i legami col movimento comunista internazionale. Questa prospettiva sembra in contraddizione con la realtà del blocco sovietico, ma la prudenza nel prendere le distanze dall’URSS era giustificata dal contesto internazionale e dal perdurare del mito dell’Unione Sovietica tra militanti e vecchi dirigenti.
Nel 1972 Berlinguer diventa segretario del PCI. Il movimento operaio alla fine degli anni Sessanta ha registrato conquiste importanti. Allo stesso tempo, però, strategia della tensione e trame oscure, come il caso del Golpe Borghese, fanno emergere il rischio che corre la democrazia italiana. Intanto la situazione economica si deteriora, l’inflazione divampa. Il colpo di stato in Cile, l’11 settembre 1973, convince Berlinguer che il PCI non può arrivare al potere a dispetto degli equilibri interni e internazionali. Su Rinascita, allora, presenta la proposta del “compromesso storico”: un accordo di maggioranza tra le forze popolari, comunisti, socialisti e democristiani.
Nel 1976, alla vigilia delle elezioni politiche, giunge ad affermare in un’intervista al Corriere della Sera di sentirsi più sicuro sotto l’ombrello difensivo della NATO. In quella tornata elettorale il PCI ottiene un risultato straordinario, raggiungendo il 34,4%. La DC, però, si attesta al 38,7%. Berlinguer trova in Aldo Moro un interlocutore fondamentale per affrontare i nodi politici. Nasce così il governo della non-sfiducia: un monocolore democristiano guidato da Giulio Andreotti, che poggia sulla collaborazione parlamentare tra DC e PCI. Pietro Scoppola ha sostenuto che in quegli anni, più che la proposta berlingueriana del compromesso storico, sia prevalsa l’idea morotea della solidarietà nazionale.
Il cardine del sistema resta la DC, in una sospensione della normale dialettica politica tra maggioranza e opposizione. Il PCI non entra organicamente nell’esecutivo, ma si ritrova a pagare un prezzo pesante a causa del sostegno alle politiche di austerità. Così, una manifestazione dei metalmeccanici nel novembre del ’77 spinge Berlinguer ad aprire la crisi di governo. Il risultato è un altro monocolore democristiano, presieduto sempre da Andreotti.
Il giorno del voto di fiducia in Parlamento, il 16 marzo 1978, le Brigate Rosse rapiscono Aldo Moro, uccidendo gli agenti della sua scorta. Berlinguer è tra i fautori della linea della fermezza. In quelle settimane inizia il contrasto frontale con il PSI di Bettino Craxi, che poi proseguirà sul piano ideologico con l’attacco del nuovo leader socialista alle radici leniniste del PCI, chiudendo definitivamente la possibilità remota di un’alternativa di sinistra al potere democristiano.
Alla sconfitta elettorale del 1979, fa seguito, l’anno dopo, il colpo subito dal PCI con la “marcia dei quarantamila” a Torino: impiegati e quadri della Fiat chiedono la fine dello sciopero che prosegue da oltre un mese. Berlinguer aveva impegnato il partito nella lotta, insieme ai sindacati, contro i vertici aziendali. In quel momento appare evidente che l’ideologia comunista ostacolava la capacità di intercettare i cambiamenti della società italiana.
Infine, la “questione morale” posta nel 1981 in un’intervista a La Repubblica. Per Berlinguer “la causa dei malanni d’Italia” era la degenerazione dei partiti, trasformati in macchine clientelari che avevano occupato lo Stato e le istituzioni. Sebbene l’analisi cogliesse un aspetto cruciale del logoramento della legittimità delle forze di governo, ritornare alla diversità morale dei comunisti non risolveva la questione dell’alternativa, lasciando il dubbio che la via italiana al comunismo fosse “un castello in aria”, come aveva affermato Norberto Bobbio.