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Tilda Swinton in The Room Next Door
Pedro nostro non è nei cieli eppure, venerato maestro prima incendiario e oggi meditabondo (c’è qualcuno disposto a parlarne male?), è proprio lui a guardarci dall’alto di una carriera già leggendaria, a ricordarci che gli anni di servizio contano (settantacinque, tra qualche giorno, all’anagrafe, cinquanta dal debutto da regista, ma il più anziano della compagine in Concorso era Gianni Amelio, quasi ottantenne) e che non è mai troppo tardi per sbaragliare un festival (dopo una vita a Cannes, questo Leone d’Oro pesa di più).
Almodóvar trionfa in un’annata interlocutoria e ondivaga, in cui piuttosto che rivelare si è preferito ribadire, con un film, The Room Next Door (da noi La stanza accanto: arriverà a dicembre e già si parla di Oscar), che non è il suo picco ma lo conferma nell’olimpo dei più grandi e, cosa ancora più importante, ne certifica la capacità sentimentale e politica di riflettere sul senso della fine. Qualcosa che ci sembra rarissimo in un’epoca che non sa fare a meno di raccontarci il trauma – personale o collettivo che sia – senza però che la sua evocazione, la sua rivendicazione, il suo desiderio addirittura vengano restituiti con le forme che ce ne diano la misura.
Almodóvar, invece, ricorre a una serie di immagini semplici e che – anche quando appaiono posticce o discutibili – appartengono completamente al cinema, dalla porta aperta alla lettera sul tavolo, con l’aiuto di citazioni esplicite fino a farsi didattiche (Viaggio in Italia di Rossellini, The Dead di Joyce e Huston, People in the Sun di Hopper) proprio per indicarci un orizzonte, trasformando il trauma (l’eutanasia come esperienza sia attiva che passiva) in qualcosa di vivo, che risuona al di là dello schermo. Non è un caso che l’abbia capito Isabelle Huppert: madame le prèsident è una che, nelle sue interpretazioni febbrili e feline, non ha mai rimosso la dimensione perturbante della vita. E forse non è un caso che sia il secondo film più breve di una competizione (107 minuti, lo batte solo El jockey a 97) in cui quasi tutti scavallavano le due ore: le cose da dire sono queste e il nostro tempo – quello delle protagoniste e quello del pubblico – è limitato.
È qualcosa che, invece, non accade in Joker: Folie à Deux di Todd Philips, operazione evidentemente suicida in cui la maschera e la performance non riescono a dare consistenza e senso a un trauma che resta pura immagine e mera apparenza, quasi caricaturale per come non sa incaricarsi realmente della cognizione del dolore.
E che capita, almeno in superficie, anche in The Brutalist di Brady Corbet, che è evidentemente un romanzo incentrato sull’esperienza del trauma, restituito attraverso un’impresa monstre sia per strumenti (la durata dilatata, la pellicola 70 mm, il formato VistaVision) che per contenuti (l’Olocausto, il capitalismo, l'architettura). E in Queer di Luca Guadagnino, che sembra dirci che non possiamo non inabissarci in un trauma per poterlo consegnare al pubblico, con immagini a tratti sconcertanti che sfidano il realismo perché la via è nell’allucinazione. E in Maria di Pablo Larraín, il “mentre morivo” di una diva in assenza di sé, anche qui penetrata grazie a un viaggio lisergico pieno di visioni che escono dalla realtà, quasi a dirci che il corpo del trauma o è fantasmatico o non è.
Forse non è un caso che dell’ormai lunga gestione del direttore Alberto Barbera questi registi siano tra i prediletti: Corbet vinse il Leone del Futuro nel 2015 con The Childhood of a Leader e tornò nel 2018 con Vox Lux, tra le pernacchie di un pubblico poco disponibile; Guadagnino ha gareggiato per il Leone quattro volte in un decennio, una in meno di Larraín (e quest’anno non si è visto Michel Franco, vera passione di Barbera).
Corbet, della covata, è il più giovane, trentasei anni, un’eccezione in un festival che ha difficoltà a consacrare nuovi registi, tant’è che anche quest’anno non c’è stata la scoperta dell’alba – e chi si pensava al crepuscolo ci ha ricordato che l’ultima fase è sempre la più radiosa, vedasi don Pedro – quanto piuttosto la conferma di due registe approdate a Venezia all’opera seconda.
Maura Delpero, che con Vermiglio ha salvato l’onore italiano (cinque film in Concorso…), è una scoperta di Locarno, Dea Kulumbegashvili, la georgiana che ha diretto April, invece, lo è addirittura di San Sebastián. Entrambe, figlie di tradizioni periferiche delle rispettive cinematografie, l’una nel solco terrigno e spirituale di Olmi e l’altra dentro l’estetica della contemplazione, sono entrate nel palmarès a ricordarci che il cinema “local” non può che essere “glocal”, che – e qui c’è una connessione con Almodóvar – i “temi” non devono imprigionare le storie ma viceversa e le “forme”, pur forti, devono allontanarsi dal rischio della maniera (che le due registe, non di rado, lambiscono) che rende tutto derivativo, estraneo più che straniante, lontano.
Venezia 81 ci dice anche che il mondo (occidentale) sta andando a fuoco: la Francia travolta dalle recrudescenze fasciste di Jouer avec le feu di Delphine e Muriel Coulin (quella Coppa Volpi a Vincent Lindon è un omaggio all’attore che più di tutti si porta addosso i segni del tempo, la fatica della classe operaia e il valore della democrazia), la Georgia patriarcale e illiberale di April, l’America suprematista degli anni Ottanta così affine a quella d’oggi in The Order di Justin Kurzel, e poi anche Joker che gioca con i disordini trumpiani. Senza dimenticare quel che accade fuori dal Concorso: la distopia 2073 di Asif Kapadia, la ricognizione su Riefenstahl di Andres Veiel, il fronte bellico in Russians At War di Anastasia Trofimova, l’immigrazione in Separated di Errol Morris, la riflessione Why War? di Amos Gitai.
E ci dice che l’Italia ha proprio bisogno di guardarsi alle spalle: tutti i film in gara sono ambientati nel passato, remoto o recente, e la facile allegoria diventa l’unico modo per provare a interpretare un presente che non si sa bene come rappresentare. Da cui un ripensamento che, insomma, non è altro che una fuga. Non è un caso che la cosa migliore offerta dal nostro Paese sia una serie, M. Il figlio del secolo, che, sì, non si discosta da questa tendenza, ma fa del passato materiale incendiario, ribaltando canoni e imponendone altri (ci voleva un inglese, Joe Wright?). Un trauma che non si risolva nel suo accantonare il lato perturbante della realtà, dell’identità e del mondo ma che vada fino in fondo così da prendere consapevolezza di quanto sia necessario lo sgomento per plasmare un immaginario.