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The Brutalist
Venezia 81 ha certificato quello che si era intuito da un po’: i film sono diventati troppo lunghi. Cinematografo apre la discussione su un fenomeno nuovo ospitando il parere di autorevoli critici. Il primo intervento.
Alla fine dell’81ma Mostra di Venezia sono intervenuto su “Fata Morgana Web” con un editoriale sulla lunghezza dei film presentati. Questione tra l’altro anticipata da Alberto Barbera nella conferenza stampa di presentazione del Festival. La cosa ha fatto nascere una certa discussione. Il punto merita attenzione.
Ho accolto l’invito della Rivista del Cinematografo a tornare sul tema, perché in gioco c’è qualcosa di decisivo che riguarda le forme, cioè il modo in cui viene portato ad espressione e ad immagine il mondo. Lungo o corto non riguardano tanto la durata oggettiva di un film (il suo minutaggio, diremmo) ma una certa esperienza che durante la visione ne facciamo. Non ci verrebbe in mente di definire La dolce vita, Il Gattopardo, Barry Lyndon o Apocalypse Now, ma neanche il recente Killers of the Flower Moon, come film lunghi. L’esperienza della visione non ci porta mai a percepire quella durata come lunga, perché in quella durata si genera un senso che non solo non ci annoia, ma ci fa sentire quel tempo come necessario al costituirsi di una tale esperienza sensata. La grande durata è una condizione necessaria ma non sufficiente a definire lungo un film.
Quando parliamo di film lunghi, intendiamo fondamentalmente riferirci a film che sentiamo tali, che percepiamo come “allungati”, la cui durata ci pare eccessiva, cioè non aggiungere nulla a ciò che il film avrebbe potuto dire in un tempo minore. Questo eccesso indebolisce il film. Parlerò dunque di film lunghi, facendo riferimento a quelli che percepiamo in quanto tali, dunque che sentiamo ingiustificatamente allungati.
Questo sentimento è anche indizio della costante partecipazione attiva dello spettatore alla visione del film, quando pensa: “Qui si poteva chiudere!”. Se l’esperienza spettatoriale è una forma di “conversazione” con il film – come pensa Stanley Cavell –, possiamo senz’altro dire che nei film “allungati” la conversazione si fa stancante, cioè non solo noiosa, ma caratterizzata da una forma di delusione. Quel film che in qualche modo ci aveva preso, a un certo punto ci delude, diventa qualcosa che ci obbliga a vederlo e ad ascoltarlo, e dunque ci intrattiene senza avere più nulla da dire.
I film lunghi sono quelli che ci deludono perché mancano ad una “promessa” che all’inizio ci avevano fatto. Altrimenti il problema della lunga durata non si porrebbe proprio, ci troveremmo semplicemente di fronte a brutti film. Quelli che definiamo lunghi non sono brutti film dall’inizio, lo diventano. The Brutalist di Brady Corbet può costituire una sorta di manifesto di film allungato nell’intento di stupire, ma dove forse quello che il film aveva da dire sul destino di vita di un uomo, un architetto ebreo ungherese che a metà Novecento si sposta in America e lì frana perché la nuova situazione fa emergere tutte le sue fragilità, poteva essere restituito in tempi più contenuti.
Da che cosa vanno distinti i film lunghi?
I film lunghi non sono film lenti
Nel ritmo lento il film restituisce la temporalità continua e i movimenti spesso impercettibili di personaggi e stati di cose. Il senso cresce nella durata lenta dell’immagine, che non ci pare mai veramente durare troppo, come nei film di Lav Diaz o nel bellissimo Trenque Lauquen di Laura Citarella. Perché in quell’immagine si deposita la continuità del tempo. La lentezza di un film è qualcosa che si percepisce fin dall’inizio, un tratto della composizione, mentre la lunghezza si percepisce solo alla fine. I film lenti fanno depositare le storie nel composto dell’immagine (Tarkovskij, ad esempio). La loro durata è interna agli eventi mostrati, quindi non si espongono alla percezione di una lunghezza inutile (esemplare la scena finale di pianto di Vive l’amour di Tsai-ming-liang, Leone d’oro 1994, di cui sentiamo la durata più che la lunghezza).
I film lunghi non raccontano quasi mai storie complesse, personaggi molteplici e situazioni articolate
Se fosse così, sentiremmo la lunghezza come necessaria per sviluppare la narrazione e portare ad espressione le trasformazioni del mondo e dei personaggi. Ma per questo oramai ci sono le serie, in cui il tempo lungo è organico alla narrazione. Davanti a Heimat 2 - Cronaca di una giovinezza di Reitz, un’opera radicata, nonostante i 13 episodi, nella forma cinematografica, percepiamo subito come la lunghezza sia funzionale alla restituzione di un’epoca, di un mondo e di una storia con i suoi tanti personaggi. I film lunghi ruotano invece intorno ad un numero minimo di personaggi, che restano tendenzialmente uguali a loro stessi, e difficilmente si predispongono al cambiamento. Una trasformazione sostanziale del protagonista sarebbe un elemento narrativamente importante in un film, e cancellerebbe ogni percezione di stancante lunghezza. Queer di Guadagnino, incentrato di fatto su un unico protagonista, il Burroughs dell’omonimo romanzo, è stato presentato al Festival di Venezia in una lunghezza di 135 minuti, rispetto ai 185 minuti della versione iniziale. Non si riesce a capire di cosa realmente si sarebbe avvantaggiato da una lunghezza tanto estesa. Ciò che il film voleva dire, che significa anche come l’ha voluto dire, è stato sufficientemente chiaro.
I film non diventano lunghi perché inanellano attrazioni, numeri, episodi, sostituendo l’intreccio con una parata di “scene” che si avvicendano
Il grande cinema moderno è stato spesso strutturato per serie di scene, e Fellini ne è stato uno dei massimi esempi, da La dolce vita al Satyricon. Ma nella modernità la scena era un momento “ottico-sonoro puro” – per dirla con Deleuze – che spesso catalizzava il senso di tutto il film. Oggi no, tant’è che la strutturazione episodica dei film è associata alla brevità degli episodi e dunque dei film stessi, come testimoniano Finalement di Lelouch o Joker: Folie à Deux di Phillips, con i loro numeri musicali. Dunque, i film lunghi oggi non rispondono a specifiche esigenze e domande, come raccontare storie complesse che richiedano tempo, restituire la lentezza dei ritmi della vita, inanellare numeri e scene per mettere in crisi la logica narrativa e causale.
La lunghezza dei film oggi è un problema estetico e formale in sé. O meglio, è il sintomo di un problema che riguarda la forma che non riesce a trovare un limite. E dunque non riesce a dare un senso al suo stesso formare, resistendo alla necessità di limitarsi. E vi resiste, perché oggi la limitazione, cioè la capacità di dare senso e composizione definita al mondo e all’esperienza, è pensata ed immaginata come riduttiva, e molto spesso antiquata, perché metterebbe fine all’infinito regno delle possibilità. Scegliere di chiudere un film senza allungarlo, senza moltiplicarne i finali, significa deciderlo, determinarlo, comporlo, attuarlo. E con ciò stesso sottrarlo all’infinito ordine del possibile, dove il film lungo preferisce invece stazionare trattenendo con sé lo spettatore, i suoi sentimenti, le sue emozioni, i suoi pensieri.
Gli sviluppi ipertrofici della narrazione, il moltiplicarsi dei finali, i tanti tornanti sia visivi sia diegetici in cui i film oggi (sia d’autore che blockbuster) si cacciano, sono un modo attraverso cui il film tiene in ostaggio lo spettatore ma anche se stesso, non liberandosi, non accedendo alla scelta, alla selezione, al taglio. Il senso della fine (per parafrasare Frank Kermode), connaturato all’umano, sembra essersi ribaltato nel (non) senso dell’assenza di fine. Continuare a mantenere aperte le possibilità, anche se queste non portano a nulla e lasciano nello stallo, significa rinunciare a costruire attraverso la forma e il suo limite uno spazio possibile di “chiarezza” espressiva (che non significa trasparenza, ma presa in carico dell’opacità stessa dell’esistenza), con ciò stesso rinunciando ad ogni effetto catartico, emendativo e curativo sullo spettatore. I film oggi sono quasi tutti un po’ troppo lunghi, perché abitano l’indecisione e il differimento come orizzonti di possibilità. È una condizione umana generale, che va al di là del cinema, e di cui il cinema, l’arte più popolare, porta una delle tracce più forti.