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“Kevin non ha un grammo di falsità nel suo corpo”. Con queste parole Brian De Palma spiegò cosa lo avesse portato a offrire a Kevin Costner (suggeritogli da Steven Spielberg) il ruolo dell’agente idealista Eliot Ness in The Untouchables – Gli Intoccabili (1987). Un tempo, una parte simile sarebbe andata a Henry Fonda o a James Stewart, ma, nella Hollywood di fine anni Ottanta, solo un attore esprimeva “tutte le qualità associate a un’America onesta e giusta” e quell’uomo era Costner.
Per esplorare la straordinaria carriera di una star che (a dispetto degli anni) è rimasta “ancora quel giovane sognante, appassionato, onesto, sincero e soprattutto immensamente talentuoso” serviva una penna che non appartenesse solo a una giornalista, ma anche a un’amica. Un’amica come Silvia Bizio, che ha trasformato quarant’anni di interviste nel volume Kevin su Costner. Un’icona del cinema si racconta (Gremese, pagg 224, € 19,90), realizzato in collaborazione con Pietro Ricci (fondatore del Kevin Costner Italian Fan Club), il quale, oltre ad aver imparato l’inglese grazie ai suoi film, considera il Premio Oscar un mentore che “ha riempito la mia vita di significato. Mi ha anche regalato la fiducia in me stesso e mi ha insegnato cosa significhi essere di parola e difendere le proprie convinzioni”.
Da Fandango (1985) a Balla coi lupi (1990), da Robin Hood – Principe dei ladri (1991) a Terra di confine – Open Range (2003), da JFK – Un caso ancora aperto (1991) alla serie tv Yellowstone (2018-2024), fino al titanico progetto Horizon – An American Saga (2024), ripercorriamo passo per passo, grazie alle parole dello stesso Costner, una filmografia che ha alternato sorprese e delusioni, successi strabilianti e rovinose cadute, cult a sorpresa e aspiranti fenomeni commerciali che non si sono rivelati tali.
Autodefinitosi uno “script hound” (cioè un segugio a caccia di buoni copioni), all’inizio degli anni Novanta, Costner affermava che “Tutta la mia sicurezza come attore è racchiusa nella sceneggiatura. Non ha niente a che fare con lo star power, il carisma o il magnetismo sullo schermo”.
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“Una delle cose più soddisfacenti della mia carriera è proprio quella di non essere in grado di prevedere quale film le persone che mi incontrano selezioneranno come loro favorito” ha dichiarato quest’anno l’attore e regista. “Molti mi parlano di Un mondo perfetto, di Waterworld, di Guardia del corpo o de L’uomo dei sogni. Non sono mai certo di quale film mi parleranno ed è questo a rendermi più felice di qualsiasi altra cosa, ossia che la mia carriera non sia ridotta a un singolo film”.
Gran parte delle riflessioni è riservata al suo genere prediletto, ovvero il western (che “è molto più di un linguaggio semplice; è semmai un linguaggio shakespeariano”), nel cui valore storico, umano e d’intrattenimento Costner ha sempre creduto, complici i propri titoli del cuore (L’uomo che uccise Liberty Valance, 1962, Sentieri selvaggi, 1956, Il fiume rosso, 1948, e Hombre, 1967). Questo amore lo rende estremamente selettivo (“Ho fatto qualche western, ma ne ho rifiutati centinaia” perché “a meno che non alzino l’asticella e possano viaggiare per il mondo, non accetto di prendervi parte”) e consapevole che il genere abbia spesso “peccato di pigrizia” (“Ci può stare il fatto di sentirsi disillusi dal West, perché c’è una intera generazione che dice che i film western sono belli e un’altra che dice il contrario. E nessuno è stupido”).
Dal momento che, come regista, Costner preferisce “lasciar “respirare” la storia, permettendo agli spettatori di conoscere i personaggi e le loro motivazioni piuttosto che affrettarsi e tagliare corto”, non stupisce il fatto che non abbia “mai temuto la lunghezza in un film. Mai. Volevano ad esempio che Open Range durasse non più di due ore, io ne feci due e diciannove. Volevano che Balla coi lupi durasse un tot, e io ne feci tre ore. […] Lascia che un film sia ciò che deve essere. Magari non riceverà la stessa accoglienza negli Stati Uniti, ma il tuo film deve avere un ritmo, un battito, e la gente seguirà quel battito, sempre che sia vivo e reale”.
Non mancano, inoltre, gli aneddoti divertenti, come la laboriosa genesi produttiva di Balla coi lupi, iniziata con un accordo scarabocchiato su un tovagliolino di carta al bar. Oppure l’incontro con il giovane Alejandro González Iñárritu (all’epoca deejay radiofonico), avvenuto in Messico durante le riprese di Revenge – Vendetta (1990), film tanto odiato dalla critica, quanto amato dallo stesso Costner, che avrebbe voluto dirigerlo prima di passare la mano a Tony Scott, reputato “una delle persone più amorevoli, affascinanti e avventurose che abbia mai conosciuto”.
Alla fine però, ciò che più emerge è quanto Costner sia sempre rimasto fedele a se stesso. Come scrive personalmente nella prefazione, “quelle interviste mi hanno fatto riflettere, rassicurandomi soprattutto sul fatto che non sono cambiato molto. I valori che ritenevo importanti in quei primi giorni di interviste insieme sono gli stessi in cui credo ancora oggi. Ho avuto una vita meravigliosa, piena di opportunità che potevo solo sognare quando mi chiedevo come sarebbe stata. E mi rende incredibilmente orgoglioso aver supportato un’amica che desiderava rivolgere uno sguardo riflessivo al mio passato.”