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JFK - Un caso ancora aperto © WARNER BROS
È una delle grandi ossessioni del cinema americano, il delitto di John Fitzgerald Kennedy, avvenuto a Dallas il 22 novembre di sessant’anni fa, una ferita che ha aperto la strada alle paranoie della New Hollywood e sobillato le trame fantapolitiche. Il grande film che restituisce tutto ciò è un film che in realtà film non è, cioè il celebre filmato in 8 mm realizzato dal sarto Abraham Zapruder, in cui si vede Kennedy colpito a morte dai proiettili sparati da Lee Oswald: la storia che si rivela di fronte ai nostri occhi, una “morte in diretta” che anticipa involontariamente le live sui social, un inconsapevole cinema del reale mediato dallo sguardo di un common man.
L’omicidio di Kennedy è anche l’inizio di un nuovo discorso sulle immagini, che non sono mai percepite come “limpide” e nascondono sempre una verità alternativa. Ci penserà Michelangelo Antonioni a interpretarlo sul grande schermo, quando in Blow-Up (1966), un film che è un processo creativo dentro la creazione di un processo, parafrasa il filmato di Zapruder con la partita a tennis mimata dagli artisti concettuali che mimano una partita di tennis, a dimostrare il trionfo dell’ambiguità, attestando l’ambiguità dentro la verità.
Il delitto Kennedy è l’evento che innesca le paranoie sul grande schermo, quelle che confluiscono nella grande stagione della New Hollywood. Non tanto il poco fortunato Azione esecutiva di David Miller (1973), che esplicita piuttosto chiaramente le responsabilità di petrolieri e servizi segreti nell’attentato, quanto il più allusivo Perché un assassinio di Alan J. Pakula (1974), che avrebbe dovuto ruotare attorno ai fatti di Dallas, con le persone presenti in quel momento che iniziano a morire una dopo l’altra, finché Pakula e il protagonista Warren Beatty (kennedyano nel senso di Bobby, il fratello di JFK ucciso nel 1968, vero punto di partenza del film) riscrissero il soggetto prima delle riprese.
E se film “esterni” alla ricostruzione storica del delitto come La conversazione di Francis Ford Coppola (1974), Tutti gli uomini del presidente sempre di Pakula (1976) e la cover di Blow-Up nel mondo dei suoni, cioè Blow Out di Brian De Palma (1982), sembrano far da ponte tra quell’evento e il Watergate, i due grandi traumi del secondo dopoguerra statunitense, ci sono film che hanno presagito la morte del presidente, a volte guadagnandosi poi la fama di opere maledette. Entrambe, curiosamente, con Frank Sinatra.
Sono Gangster in agguato, un b-movie di Lewis Allen che nel 1954 mette in scena tre killer che fanno irruzione in una casa, ottima postazione da dove intendono ammazzare il presidente atteso in corteo, e Va’ e uccidi, il capolavoro allucinato di John Frankenheimer, uscito un anno prima dell’assassinio, racconta di un eroe di guerra che viene soggiogato psicologicamente per uccidere un politico democratico in una manifestazione pubblica. Si racconta che Oswald, che era un veterano di guerra, avesse visto Gangster in agguato prima di sparare a Kennedy, quindi Sinatra (che nel film era il sicario) fece in modo che il film fosse ritirato dalla circolazione. Ci provò – ma senza riuscirci – pure con Va’ e uccidi, in cui interpretava il “buono”.
Ma nelle rappresentazioni dirette o meno del delitto non c’è solo il tentativo di restituire qualcosa di inafferrabile: difficile eguagliare JFK – Un caso ancora aperto di Oliver Stone (1991), che a distanza di più di trent’anni resta il più preciso, scrupoloso, attendibile – e incalzante, spettacolare, fruibile – dei film sul tema, con la ricostruzione delle indagini portate avanti dall’allora procuratore distrettuale di New Orleans che dubita della tesi ufficiale della Commissione Warren, che individuò in Lee Harvey Oswald come unico esecutore materiale dell’attentato. Stone, autore ossessionato dal tema, sostiene che “l’assassinio di Kennedy ha profondamente turbato la mia generazione e la nostra cultura: molti dei nostri problemi, la sfiducia nel governo, sono iniziati nel 1963. Da allora non abbiamo più creduto ai nostri leader. Gli americani sono diventati sempre più cinici. Non votano. I giovani non votano. Il Paese da allora ha conosciuto gli scontri razziali e una vera guerra civile”.
Molti hanno provato a competere con il suo capolavoro, cercando la verità attraverso altri punti di vista e nuove angolazioni spesso per dare voce alle teorie del complotto, dal corale Parkland di Peter Landesman (2013) al televisivo Killing Kennedy di Nelson McCormick (2013), perfino nella miniserie distopica 22.11.63 (2016), tratta da Stephen King e diretta da Kevin Macdonald in cui si viaggia nel tempo per impedire il delitto. Ma nel delitto Kennedy, il cadavere eccellente dell’immaginario americano, c’è anche qualcosa di più profondo: un trauma emotivo.
Lo spiega bene Jackie di Pablo Larraín (2016): l’assassinio del presidente è la fine del sogno, come se fosse il regno di Camelot del musical preferito da JFK, quello in cui si canta “nessuno dimentichi che ad un certo punto è apparso un fugace barlume di gloria”. È il film in cui il presidente è già un fantasma e la scena se la prende la vedova, che fa i conti con la rappresentazione del dolore, sulla manipolazione dei fatti e sul confine tra verità e recita.
Ma sono tante, le vedove che lascia il divo John: come Lurene, la protagonista di Due sconosciuti, un destino di Jonathan Kaplan (1993), idealizza la first lady con la quale si identifica (entrambe hanno perso un bambino) e assiste suo malgrado all’uccisione del presidente. E come le persone che affollano il funerale in Faces of November di Robert Drew (1963), cortometraggio che nel testimoniare un avvenimento storico si rivela un’elegia per immagini: la monumentalizzazione di Jackie piangente, la famiglia reale al completo, la testa di un corteo gremito soprattutto di donne in lacrime.