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Kasia Smutniak (foto di Karen Di Paola)
“Mai come in questo momento siamo spettatori delle tragedie che accadono nel mondo. E abbiamo la possibilità di scegliere chi ascoltare e come informarci. Più che raccontare ciò che sta accadendo, volevo esplorare un’emozione che stava nascendo dentro di me”. Così Kasia Smutniak racconta i motivi che l’hanno spinta a debuttare alla regia, con un documentario intimo e di denuncia: Mur, già presentato in anteprima mondiale al Toronto International Film Festival e ora alla Festa del Cinema di Roma nella sezione Special Screening.
Un film che nasce dopo la notizia che la Polonia, il paese più generoso nell’accoglienza dei rifugiati ucraini all’indomani dell’aggressione russa, era impegnata nella costruzione del muro più costoso d'Europa per impedire l’entrata di altri rifugiati, al confine con la Bielorussia. “Non sono una reporter, volevo raccontare l’inizio di qualcosa – rivela Smutniak – e la genesi del male, soprattutto dal punto di vista umano. Il muro era diventato la mia ossessione. Mi interessavano le conseguenze delle migrazioni sulle persone che non vivono in quella zona: da qui la scelta di non riprendere i migranti”. Per girare il documentario, la neo-regista è tornata nella natia Polonia: un’occasione per tornare alle radici? “Forse in principio non mi era chiaro – spiega – ma ero attratta dal confronto tra presente e passato. Penso che non si possano capire le crisi senza avere un quadro completo, che metta insieme i fatti personali e quelli collettivi. La mia storia familiare non è particolarmente interessante, però è legata a luoghi emblematici, come il ghetto ebraico di Łódź. E sono tornata a casa di mia nonna: non ci entravo da vent’anni”.
Complice di Smutniak è stata Marella Bombini, sceneggiatrice e non solo: “L’attrezzatura leggera era necessaria, avevamo una piccola telecamera. Poi abbiamo capito che gli smartphone restituivano meglio la verità del racconto. Eravamo preoccupate che centinaia di ore di girato potessero limitarci, ma la forza del racconto era proprio lì, immerse in una realtà assurda”. Il pubblico potrà identificarsi meglio proprio con Bombini: “È più facile – specifica Smutniak – perché Marella non sa il polacco, non conosceva le zone, non poteva relazionarsi con gli altri. Quello di Marella è lo sguardo puro di chi si indigna di fronte a un’ingiustizia. Era fondamentale questo punto di vista: l’obiettivo era togliere la tragedia dal contesto”.
Smutniak e Bombini si sono spinte nella foresta in cui si stava costruendo il muro: lavorazione pericolosa? “Essere donne ci ha aiutato: siamo state completamente sottovalutate. Non sono una persona forte, ma non la considero una debolezza. Ho avuto paura? Anche se fosse, chi se ne frega. La mia paura non è paragonabile a quella di coloro che si trovano su quel confine. Ho avuto paura di ritrovarmi nella situazione in cui avrei dovuto scegliere, questo sì”.
Impreziosito da una locandina firmata dall’artista e giornalista curda Zehra Doğan, detenuta per due anni a causa di un’opera, Mur è prodotto da Domenico Procacci di Fandango in associazione con Luce Cinecittà (che lo distribuisce nelle sale da domani 20 ottobre). Il produttore, com’è noto, è anche il marito di Smutniak: “Kasia non ci ha mai trasmesso la pericolosità di ciò che stava vivendo. Come produttore sono felice perché è un lavoro importante e personale. E sono contento per la coincidenza con le elezioni in Polonia. Finalmente qualcosa cambierà”.