“Se Jean-Pierre Melville fosse vissuto nel secolo XVI, il cinema sarebbe stato inventato da Leonardo da Vinci. Essendo egli nato nel secolo XX, è stato necessario che ci fossero i fratelli Lumière ad inventarlo.”
(Howard Vernon)

Jean-Pierre Melville: classicismo e ambiguità, sdoppiamento e ricerca dell'assoluto. E ciò fin dal nome. Che non è il suo. Dei primi trent’anni della sua vita (è nato a Parigi il 20 ottobre 1917) si sa solo che giocava con la Pathé-Baby, andava al cinema, amava appassionatamente i film americani, si chiamava Jean-Pierre Grumbach. Poi, la guerra, l’evacuazione in Gran Bretagna, la resistenza. Ritornato civile nel novembre 1945, da cinéphile diventa subito produttore-regista, decide di fare delle proprie passioni una professione, mette a frutto l'esperienza tecnica accumulata fin da bambino con cineprese a 9,5 mm, a 8 mm, a 16 mm (“Tra i registi francesi credo di essere il più ‘tecnico’ di tutti”), si sceglie uno pseudonimo.

“Ho a lungo esitato prima di scegliermi un nome. Poe? Melville? Mi sono deciso per il secondo non a causa di una fonetica più gradevole, ma perché sentivo l'universo di Melville più vicino di quanto mi fosse quello di Poe. Ma ciò che mi affascinava segretamente era che Bartleby sembra scritto da Poe e Pym da Melville. Allora? Allora è molto semplice. Bisogna costruirsi un ruolo, non recitare mai il proprio, portare un naso finto, non mostrarsi nudo. Un artista vive solo attraverso le sue opere e il resto, che egli sia bohème o borghese, ribelle o integrato, ha ben poco interesse, nessuna importanza. Il segreto di Melville (il grande), di Poe, di Melville (il piccolo) è forse nell'inquietudine, nella difficoltà di far finta di sentirsi bene nella propria pelle”. E Melville (Jean-Pierre) è rimasto sempre fedele a questo immodesto progetto di ricreare il mondo a propria immagine e di farne un sistema. Anche se passando attraverso le vie dell'apparente contraddizione.

Il silenzio del mare (Webphoto)
Il silenzio del mare (Webphoto)

Il silenzio del mare (Webphoto)

Melville è un isolato, lontano dalle scuole e dai dibattiti che agitano il mondo cinematografico, ma è stato considerato, a torto o a ragione, il “padre” della più settaria e mondana corrente del cinema francese: la Nouvelle Vague. Melville ama incondizionatamente il cinema americano degli anni ’30 e ’40, ma i suoi primi film – Il silenzio del mare (1947) e I ragazzi terribili (Les enfants terribles, 1949) – attingono alla letteratura intimista e negano sia l’azione che la comunicazione spettacolare. Melville avrebbe voluto diventare un Frank Lloyd o un Robert Wise, ma per tutta la vita (tredici lungometraggi) ha custodito gelosamente la propria individualità d'autore con “partiti presi, preferenze, ossessioni, un preciso punto di vista sul mondo”.

Melville disprezza Johnny Guitar, Il dominatore di Chicago o Il covo dei contrabbandieri, ma è amato ed accettato come nume tutelare dai giovani registi che proprio questi film considerano i loro cavalli di battaglia. Il gioco delle antinomie potrebbe essere continuato quasi all'infinito, tirando in ballo sia le sue scelte tematiche ricorrenti (resistenza e poliziesco), sia le cadenze di uno stile che sublima il comportamento sulla via maestra della tragedia eterna dell'esistere. Ma sarebbe sempre un rimanere alla superficie di un'opera che proprio dall'ambiguità, e dalla sua consapevolezza, trae gran parte del suo fascino.

Ed allora conviene subito spostare il discorso su un altro piano: non per constatare la frattura tra intenzioni e risultati o tra il Melville cinéphile e il Melville-regista (frattura che non esiste), ma per cercare di ricomporla da un punto di vista più specifico. Quello delle opere. Una cosa è subito e facilmente riconoscibile: esiste un “tono” Melville, così come esiste un “touch” Lubitsch o uno “style” Ford. Un film di Melville ha cadenze, sfumature, tensioni morali, composizioni figurative, ritmi di montaggio, scansioni di découpage assolutamente personali, che possono degenerare - a causa della loro trasparenza - in manierismo, ma che hanno come primo riferimento solo se stessi.

I ragazzi terribili (Webphoto)
I ragazzi terribili (Webphoto)

I ragazzi terribili (Webphoto)

E ciò fin da quel Il silenzio del mare pur girato in condizioni assolutamente proibitive e con metodi di lavoro tipicamente cineamatoriali: troupe ridotta al minimo, pellicola acquistata al mercato nero, mancanza dei più elementari mezzi tecnici (Henri Decae, esordiente nel lungometraggio, non aveva neppure un esposimetro), metodi di lavoro clandestini (Melville non aveva l'autorizzazione né di Vercors, autore del libro , né dei sindacati). Eppure, come ha già sottolineato Jean Wagner, Il silenzio del mare è “uno dei film più sereni di Melville, uno dei più ispirati, un Léon Morin, prete dei meglio strutturati”: qualità che rinviano immediatamente ad un discorso sulla messa in scena e sui suoi toni.

Infatti, sia che racconti una storia chiusa in un solo ambiente e praticamente senza dialogo (Il silenzio del mare) o ritagli la solitudine dell'uomo in un décor notturno (Bob il giocatore, 1955 e Le iene del quarto potere, 1958) sia che isoli alcuni personaggi sullo sfondo di avvenimenti storici (Léon Morin, prete, 1961; L’armata degli eroi, 1969; Lo sciacallo, 1963) o di situazioni tipiche del cinema d'azione (Lo spione, 1962; Tutte le ore feriscono, l'ultima uccide, 1966; Notte sulla città, 1972): Melville eleva il tono della propria regia fino ad imprimere ai comportamenti una risonanza che trascende la sceneggiatura, per attingere la misteriosa ambiguità dell'eterno. L'esistente, nel suo cinema, rinvia sempre alla propria essenza, e viceversa. È questo il procedimento che caratterizza anche l'opera di Robert Bresson (autore che Melville ama in modo particolare), ma con un completo rovesciamento di segno.

Léon Morin, prete (Webphoto)
Léon Morin, prete (Webphoto)

Léon Morin, prete (Webphoto)

Ce ne dà un'idea Claude Beylie, quando annota: “Bresson, amante delle anime, nega la carne e lo spettacolo e si accanisce a filmare l'invisibile, voltando deliberatamente le spalle alla natura; mentre Melville oggi, e Rossellini ieri, tracciano pazientemente i loro arabeschi intorno al volto della creatura, fino a tirarne fuori, almeno, la misteriosa bellezza”. Cioè, mentre Bresson guarda il mondo dal punto di vista di Dio, Melville vi ricerca all'interno, con animo turbato, il significato dell'esistenza umana: che è poi la differenza tra un credente e un laico che, nella creazione cinematografica, si verifica tutta nello stile, nel tono, nelle scelte espressive. Dunque, per Melville, all'inizio erano la carne e lo spettacolo. Che, per un poeta individualista come lui, equivalgono alle due grandi esperienze della sua vita: la resistenza e il cinema poliziesco americano. Non è, infatti, un caso che intorno a questi poli giri tutta la filmografia di Melville, in cui I ragazzi terribili e Labbra proibite (1952) costituiscono le uniche note eccentriche, anche se non solo per questo meno riuscite.

Ma la resistenza (la carne) e il “nero” americano (lo spettacolo) hanno, per Melville, un senso se aiutano a capire la verità, ad attingere l’essenza (l'anima) dell'uomo e dei suoi rapporti con gli altri. E per far questo egli ne esplora le strutture, dilatandone i tempi fino a superarne la contingenza, con un metodo che rimane sempre lo stesso fino alla vigilia della sua morte (1973). Pochi registi hanno la capacità di Melville di evocare un ambiente e un'epoca. La Pigalle notturna o l'alba a Piace Bianche in Bob il giocatore, i bar e le strade di Manhattan in Le iene del quarto potere, certi esterni sulla costa mediterranea in Tutte le ore feriscono, o nella sequenza iniziale di Notte sulla città, i vestiti, gli arredamenti, persino le etichette delle bottiglie bevute al banco, hanno una pregnanza tale da giustificare l'esclamazione di Chabrol: “Bisogna rendere omaggio a Jean-Pierre Melville: è un uomo che sa ciò di cui parla”.

I senza nome (Webphoto)
I senza nome (Webphoto)

I senza nome (Webphoto)

Ma Melville non è un documentarista, pur geniale e poetico; è un narratore lucido e consapevole dei propri mezzi linguistici, è un moralista che cerca nel dettaglio iper-realistico il senso del “male di vivere”. E il significato del suo cinema deve ancora una volta essere ricercato non nel rappresentato, quanto nei toni della rappresentazione. Ma il tono, si sa, è solo una relazione che lega una serie di note (inquadrature) e di accordi (sequenze) verso un punto focale. E, se il tono dei film di Melville riesce sempre ad essere così elevato, è proprio perché deriva da un meticoloso lavoro sui dati che lo sottendono e dai quali è possibile ricavare una grammatica che, pur correndo il rischio di diventare una retorica, è anche il segno primario del linguaggio melvilliano.

Iniziamo dalla fotografia che il regista ha sempre curato in modo quasi maniacale, facendo spesso impazzire i tecnici dei laboratori di stampa. La fotografia dei film di Melville si chiama, soprattutto, Henri Decae: “mentre la maggior parte degli operatori vogliono il massimo di luce e diaframmano al massimo, Decae, al contrario, lascia aperto e illumina poco; egli sa che il nero e il bianco non si ottengono che quando ci sono delle cose poco illuminate o non illuminate affatto”. E la tecnica utilizzata nei grandi studi hollywoodiani, che Melville ha adattato alla luce naturale delle strade di Parigi e dei bar di Manhattan, dando alle sue immagini un contrasto e una profondità drammatica simile solo a quella dei grandi "neri" americani degli anni '40; e che ha trasportato anche nel colore (da Lo sciacallo, 1962; con la sola parentesi di Tutte le ore feriscono...), filtrando le tinte in rapporto alle esigenze narrative e alla definizione di un clima psicologico.

Lo spione
Lo spione

Lo spione

Anche per questo, ogni sua inquadratura non si limita al raffinato formalismo del “cinéma de qualité” alla francese, ma lo riassorbe in una funzionalità indisgiungibile dall'insolita e poetica composizione interna di tutti i dettagli. Bob il giocatore assurge a simbolo della grande stanchezza degli ambigui anni folli non per quello che fa, ma pet: le ombre che la notte e l'alba gettano sul suo volto esplorato in lunghi primi piani e sul suo deambulare, a figura intera, tra bar, case da gioco e strade deserte; Lo spione diventa una meditazione morale sulla menzogna, sull'amicizia virile e sulla gioventù che se ne sta andando, anche perché messa in scena con inquadrature in cui nulla è superfluo, come nel cinema classico americano; Frank Costello, faccia d'angelo (1967) concentra in sé la dolenza ieratica del Teatro Nō e la tragica professionalità del “nero” hollywoodiano soprattutto In virtù delle lunghe immagini, ad altezza d'uomo, che ne isolano la precisione dei gesti ed il mistero dello sguardo.

Ma tutti i personaggi di Melville, dal colonnello von Ebrennac a Frank Costello, sono definiti forse più dall’habitat in cui agiscono che dai fini che si propongono. La scenografia nei suoi film diventa così, parte integrante della vicenda. La stanza di Bob le flambeur la villa dello “spione”, la Parigi tanto amata non sono mai affrontate solo in termini descrittivi o pittoreschi. Sono l'aggettivazione delle contraddizioni, dei sogni della difficoltà di vivere, dei vari personaggi: il “Deus sive Natura” di un regista il quale sa che l'uomo, pur con il più alto grado di professionismo (tutti i protagonisti dei film di Melville sono dei "professionisti"), non può modificare il corso degli eventi. E questa religiosità immanentista trova conferma nell'uso dei tempi e del montaggio interno alle singole sequenze. Si prendano ad esempio la sequenza iniziale di Lo spione, quella dell'assalto al furgone postale di Tutte le ore feriscono… e quella della rapina in treno di Notte sulla città. In tutte troviamo il partito preso di rappresentare gli avvenimenti nei loro tempi reali, oltre che l'esaltazione dell’efficienza tecnico-professionale tipica del cinema “made in Hollywood”.

Tutte le ore feriscono... l'ultima uccide
Tutte le ore feriscono... l'ultima uccide

Tutte le ore feriscono... l'ultima uccide

L'azione è visualizzata con realismo e crescendo drammatico: la conversazione tra Serge Reggiani e René Lefèvre rotta dal colpo di pistola, la lunga attesa sopra i tornanti della strada deserta, il martellante rollio del treno. Ma sull'effetto spettacolare incombe il disagio di una tragedia di più vaste dimensioni; e ciò perché lo scorrere del tempo reale diluisce la suspense in primi piani in quietanti, in silenzi che sollecitano la riflessione, in un tono dolente derivante dal contrasto tra la vita e la sua rappresentazione.

Certo, queste sospensioni temporali, questo rifiuto programmatico dell'ellissi narrativa, corrono il rischio, al cinema, di diventare maniera e di ingenerare noia; ma Melville esorcizza questo pericolo con la straordinaria cura riservata alla direzione degli attori. Nicole Stéphane (Il silenzio del mare e I ragazzi terribili), Jean-Paul Belmondo (Léon Morin, prete, Lo spione, Lo sciacallo), Serge Reggiani (Lo spione), Lino Ventura (Tutte le ore feriscono..., L’armata degli eroi), Alain Delon (Frank Costello, I senza nome, Notte sulla città) hanno nei suoi film un'aderenza perfetta ai personaggi. Anzi, sono i personaggi.

Fedele alla sua incondizionata ammirazione per il cinema americano, Melville sa che il fascino di un film non esiste senza una buona distribuzione delle parti e, anche se non sempre è stato soddisfatto dagli attori avuti a disposizione, ha saputo almeno modulare i ritmi delle sue immagini sui gesti e sulle espressioni dei protagonisti, ricavando da loro il massimo possibile e cogliendo sui loro volti gli echi delle proprie convinzioni e della propria visione del mondo.

Bob il giocatore (Webphoto)
Bob il giocatore (Webphoto)

Bob il giocatore (Webphoto)

Il tono Melville, quindi, non è, né vuole essere, una semplice sovrapposizione delle ansie di un autore sui propri materiali. Classicismo linguistico, rispetto del testo letterario da cui prende le mosse, uso consapevole della tecnica nella sua accezione più completa e complessa, fedeltà ai propri gusti personali: sono componenti da analizzare tutti insieme nella sua opera; la quale costituisce un qualcosa di estremamente coerente ed omogeneo, proprio perché assume in piena coscienza la contraddizione tra il mestiere e l'arte, tra l'artigiano e l'autore. “È un mestiere talmente ricco, talmente bello, talmente pieno, parlo del mestiere del cinema, che non so scegliere. Se mi domandassero: ‘Che cosa preferite fare: la produzione, la regia, la sceneggiatura, l'attore, la direzione della fotografia?’, non saprei rispondere. Io amo tutto ciò nel suo insieme, è indivisibile. Il mio grande sogno sarebbe quello di fare un giorno anche la musica di un mio film”.

Ma di un così esclusivo amore per il cinema si può solo sognare o morire: la sua pratica ne potrà solo riflettere l'intima contraddizione tra l’io e il tutto, tra la passione creatrice (il tono) e la natura (i modelli e gli oggetti da organizzare). La sintesi è solo ipotizzabile e le opere di Melville stanno appunto a testimoniare quanto sia difficile la ricerca dell'assoluto.