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Jean-Pierre Léaud in L'amore fugge
Fuori e lontano dal grande schermo, Jean-Pierre Léaud non ha mai trovato pace, come se il cinema fosse l’unico posto al mondo dove poter abitare, anzi vivere. Non a caso il suo mentore François Truffaut – che, a prescindere dall’affetto, lo considerava il miglior attore della sua generazione – ne aveva sottolineato la dimensione antirealista: “Anche quando dice ciao, viriamo verso la finzione, per non dire la fantascienza”. Truffaut, lo sappiamo, l’ha scoperto, plasmato, trasfigurato, mitizzato, sacralizzato nell’alter ego (di entrambi) Antoine Doinel (“Aveva una forma di violenza – ha detto Truffaut ricordando il primo provino – e un gran desiderio di ottenere la parte. Lui era più arrogante, anche più sfacciato! Perciò vedevo il personaggio allontanarsi leggermente, ma lui gli apportava una vitalità tale che mi piaceva, e lo accettai. Anche per questa idea, che avevo forse imparato da Renoir, che l’attore è più importante del personaggio”).
Eppure era il primo a ricordare che il protagonista de I 400 colpi era “solo uno dei personaggi da lui interpretati, una delle sue dita mano, uno degli abiti che indossava, una delle scuole della sua infanzia”. Tutti meriteremmo un Truffaut che ci fotografa al di là dell’immagine: Léaud l’ha avuto e l’ha avuto anche dopo la morte di colui che è stato maestro, padre, fratello, amico, perché sarebbe impossibile restituirsi al mondo attraverso la lente di qualcun altro. L’ultima volta che l’abbiamo visto al cinema, in un cameo che chiude un film non certo memorabile al netto della sincerità cinefila del suo autore, Léaud è un fantasma, corpo alla ricerca dei domani passati, fatto della sostanza di cui sono fatti i ricordi (C’è tempo, s’intitolava quel film: e, no, tempo non ce n’era più).
Oggi Léaud compie 80 anni, ma il tempo trascende ogni compleanno, che altro non è che un avvicinamento alla fine: era stato lui stesso a dircelo, a Cannes 2016, quando da una parte, pingue e decadente, fu celebrato con la Palma d’Onore e dall’altra si lasciava immortalare da Albert Serra in La mort de Louis XIV. E se in una certa misura Léaud è il cinema moderno, allora quel film ne è una sua ipotesi biografica. Dove c’è un Re Sole al tramonto, malatissimo, pallido, imparruccato come nell’iconografia che gli concede il diritto all’eternità, circondato dalla corte che lo adula per consuetudine alla piaggeria, in attesa dell’atto estremo tra calcoli di costi e benefici e alla futura conservazione di sé. Un corpo desacralizzato, il potere in cancrena: Léaud borbotta, bofonchia, sentenzia, guarda attraverso un occhio che non ci vede più, ingigantito e sommerso dall’apparato di cuscini, lenzuola, drappi, adagiato nei ricci grigi del parruccone che definisce la differenza tra lui e il resto del mondo.
Solo chi ha vissuto i giorni della rivoluzione sa come ci si avvicina alla fine: e quel film sfacciatamente testamentario ci diceva molto del destino, della malinconia, della disperazione di Léaud, mai titano e sempre indomito nella fragilità, eterno figlio che il padre (putativo) non ha avuto il tempo né il desiderio di ucciderlo (Truffaut è morto prima, nel 1984). E che la scomparsa nel 2021 del gemello diverso del compianto mentore, l’amico perso e il nemico amatissimo, naturalmente quel Jean-Luc Godard, ha gettato in uno sconforto irredimibile (leggi: depressione e indigenza). In suo favore si è mosso il mondo (il critico Serge Toubiana in testa) con una campagna di crowdfunding per sostenere l’ultimo sopravvissuto, il vecchio bohémien.
È andata così, ma Léaud è attore che ha dato vita al cinema e cinema alla vita: “Se non c’è la macchina da presa, perdo l’orientamento. La mia unica vera partner, il grande Altro come direbbe Lacan, è la macchina da presa”. Pochi come lui possono rivendicare d’esser diventate icone (non “iconici”, termine ormai tanto abusato quanto svuotato): la corsa in riva al mare e il fermo immagine che fa scuola (I 400 colpi), i nomi delle amate ripetuti allo specchio e Que reste-t’ll de non amours? (Baci rubati), “I film sono più armoniosi della vita, Alphonse, non ci sono intoppi nei film, non ci sono rallentamenti... i film vanno avanti come i treni, capisci? Come i treni nella notte” (Effetto notte).
Nessuno può fare a meno di Jean-Pierre Léaud, più che il simbolo proprio l’incarnazione della Nouvelle vague: Godard (Il maschio e la femmina, La cinese, La gaia scienza), Jean Eustache (La Maman et la Putain, per alcuni il suo capolavoro d’attore: uno sfaccendato mezzo disperato e mezzo entusiasta che si divide tra due donne e prova a schivare un dolore, con un lunghissimo monologo in primo piano nella storia del cinema), Jacques Rivette (Out 1), Jerzy Skolimowski (Il vergine), Philippe Garrell (La concetration), Pier Paolo Pasolini (Porcile), Bernardo Bertolucci (Ultimo tango a Parigi). E quando quella stagione si esaurisce, il cielo si fa meno nitido e gli orizzonti rivelano eventi imprevisti, ecco che una nuova generazione lo ritrova e lo riporta alla luce: Aki Kaurismäki (Ho affittato un killer, Vita da bohème), Oliver Assayas (Contro il destino, Irma Vep), Bertrand Bonello (Il pornografo), Tsai Ming-liang (Che ora è laggiù?, Visages).
Ma è nel passato, anzi nella memoria, che abita e sempre abiterà Léaud: l’aveva capito l’amico Bertolucci, che alterna l’originale materiale sessantottino in cui lo vediamo giovane arrabbiato che legge la protesta degli intellettuali contro il governo che ha fatto fuori Henri Langlois, il direttore della Cinémathèque française, con le immagini di un Léaud maturo che interpreta quelle stesse parole. “La libertà non viene data, si prende”, diceva e dice. Il film si chiama The Dreamers, e lui lo è stato.