Jacques Tati (Le Pecq, 9 Ottobre 1907 – Parigi, 4 novembre 1982) si è affermato in vita come attore, sceneggiatore e regista per il cinema, in particolare grazie ai suoi primi tre lungometraggi: Giorno di festa (1949), Le vacanze di Monsieur Hulot (1953) e Mio zio (1958). Creatore e interprete del lunare personaggio di Monsieur Hulot, Tati realizza nel 1967 il suo progetto più ambizioso, Playtime. Ma, invece del successo, con questo film arriva un clamoroso fallimento commerciale, destinato ad influenzare negativamente il resto della sua carriera. Gli ultimi due tasselli di una breve filmografia sono sbrigativamente liquidati da pubblico e critica come “minori”: Monsieur Hulot nel caos del traffico (1971) e Il circo di Tati (1973). Tati paga infine il declino di popolarità trascorrendo gli ultimi anni della sua vita lontano dai set cinematografici. Solo a distanza di alcuni anni dalla sua scomparsa, l’eredità artistica di Tati, grazie all’impegno della figlia Sophie e di alcuni cineasti e studiosi francesi, è stata difesa avviando un percorso di valorizzazione che restituisce al cineasta la sua meritata statura di grande comico moderno.

A quarant’anni dalla scomparsa, lo ricordiamo con questa intervista apparsa sulla Rivista del Cinematografo di novembre 1969.


Dicono che abbia l’aria di Parigi, della Parigi perduta delle canzoni di Charles Trenet quelle che parlano di trepidi innamorati, di fioraie deluse, di boulevard illuminati dalle lampade a gas. A noi, personalmente, ricorda certi personaggi della letteratura infantile per i quali si provava, così d’improvviso, qualcosa che era a mezzo tra l’ammirazione e la tenerezza. Certamente il personaggio è insolito e ancor prima anacronistico: aria stralunata, andatura a sobbalzi irregolari, pantaloni troppo corti che scoprono assurdi calzini a righe orizzontali, cappello a larghe falde, pipa in bocca.

Per l’anagrafe si chiama Jacques Tati ma tutti noi abbiamo imparato a conoscerlo e ad amarlo come il signor Hulot, ultima romantica incarnazione di Don Chisciotte. Il suo ronzinante è una bicicletta troglodita (quella del postino di Giorno di festa) o un ciclomotore (quello dello stravagante parente di Mio zio); la sua lancia, un robusto parapioggia. A differenza del cavaliere della “triste figura” non ha scudieri. È un isolato. I mulini a vento della sua protesta sono i miti della nostra società ultra progredita. Di dove viene non si sa. Con molta probabilità da una di quelle stradine, anonime e malinconiche, scarsamente illuminate e frequentate da gatti randagi, tanto care a Prevert. Certamente da un mondo ancora genuino scampato miracolosamente al dilagare dell’edilizia e del modernismo. Quasi un’oasi a portata di mano, un “altrove” all’angolo della strada.

Una pensosa e pacata malinconia gli ha messo le ali per varcare i confini del tempo e portare nel mondo, soffocato dall’ansia del perfezionismo tecnico e del benessere, la poesia delle piccole cose dimenticate. Da ventidue anni nelle sue rarissime apparizioni cinematografiche (quattro film in tutto) questo imprevedibile signor Hulot ci racconta dei suoi strani incontri con le meraviglie del ventesimo secolo. Sono piccole storie tessute di minute notazioni che però ripetono una storia ben più grande e vera ma ancora da scrivere: la sommessa, pacata, educata ma anche ferma resistenza dell’uomo comune ai tentativi di modificare la sua struttura mentale. La lotta apparentemente è impari, ma il signor Hulot non ne esce mai sconfitto. In questa speranza di fondo che è la chiave poetica del cinema di Tati, possiamo scorgervi la storia dell’umanità. E questo fa del suo cinema non soltanto un’occasione di divertimento ma soprattutto un’occasione di meditazione.

Playtime (Webphoto)
Playtime (Webphoto)
Playtime (Webphoto)

Tati-Hulot. Hulot-Tati. Com’è questo signor Hulot fuori dallo schermo? Insomma com’è nella vita privata Jacques Tati, anzi Tatischeff? Ecco, un signore di sessantadue anni un po’ aristocratico e con un pizzico di stravaganza ma anche tanto cordiale e tanto umano. È ormai proverbiale la sua onestà intellettuale, l’integrità morale, il suo fuggire dai compromessi. Non ha vita facile – figuriamoci – uno che sceglie di vivere così in un mondo dove “chinarsi” e ammorbidirsi quasi sempre è regola di vita. Forse questo spiega - prima ancora di ogni al tra cosa, prima ancora del mezzo insuccesso di Playtime –, i numerosi “no” che Tati ha raccolto prima di trovare un produttore coraggioso che gli permettesse di girare il suo nuovo film, Trafic (in Italia sarebbe uscito con il titolo Monsieur Hulot nel caos del traffico, ndr).

In questi giorni il regista è a Saint-Denis, un paesino della Francia nord-occidentale nel distretto della Senna. È qui che sta portando a termine il film. È qui che l’abbiamo raggiunto. Per parlare con lui: del film e anche di tante altre cose non necessariamente legate al cinema.

Signor Tati, vogliamo parlare un po’ del suo nuovo film?

È un film sperimentale e goliardico. Scherzo, naturalmente. È che mi sembra di essere ritornato alla prova del debutto: “attento alle spese, tieniti stretto ai tempi di lavorazione programmati, eccetera, eccetera”. Così giro a velocità vertiginosa all’aperto, senza truccatori, senza aiuti. È una specie di prova d’appello dopo il mezzo fiasco di Playtime. O va bene o si chiude baracca.

Noi ricordiamo con particolare simpatia Playtime e non riusciamo a capire le ragioni dell’insuccesso del film. Passi pure per l’Inghilterra e per la Germania ma per la Francia, proprio nel suo paese...

I francesi non sanno ridere. Hanno bisogno di storie grossolanamente condite di doppi sensi, di battute da avanspettacolo. L’esprit de finesse dei francesi. Ma chi è stato a dirlo?

Naturalmente lei non scenderà mai a patti con certi gusti correnti nel cinema di oggi...

Naturalmente. Tati resterà sempre lo stesso. lo continuo a fare il mio cinema. Se non mi vorranno più, se non accetteranno più Hulot così com’è allora mi ritirerò per sempre. D’altronde per fare questo film ho dovuto superare non poche difficoltà.

Non vorrà dirci che un regista come lati trova difficoltà a fare un film?

Certo che le trova, le difficoltà, un regista come Tati, e tante. Naturalmente film ne avrei potuto fare a dozzine. Ma che film? Se avessi dato retta ai produttori, dopo Le vacanze dì monsieur Hulot avrei fatto Hulot nell’harem o Hulot in montagna. Sarei andato avanti per un bel pezzo. Come è successo da voi per Totò. Due anni fa andavano di moda i film di spionaggio? Ecco dunque Hulot al servizio segreto di Sua Maestà.

Lei invece preferisce fare un film ogni sei anni...

Non ho fretta. La mia natura è pigra. Provo sincera ammirazione, e forse invidia, per quei colleghi che riescono a fare un film ogni due anni. Sinceramente!

Signor Tati ci sono registi, in Italia per esempio, che riescono a fare addirittura due film all’anno. Pensi un momento ai suoi ventidue anni di dedizione al cinema. Pensi: in ventidue anni, quarantaquattro film. Un record, non trova?

Incredibile, due film all’anno. E si guadagna molto, naturalmente!

Naturalmente.

Dunque sarei costretto a rivedere molte mie idee. Sinora ho pensato che per fare un buon film non fosse sufficiente prendere un libro famoso, il miglior sceneggiatore, l’operatore più dotato e un montatore geniale. Ho pensato che tutto questo andasse bene per una macchina ma che il cinema fosse un’altra cosa. Ma i film di cui Lei parla sono veramente dei buoni film?

Giorno di festa (Mikado - Webphoto)
Giorno di festa (Mikado - Webphoto)
Giorno di festa (Mikado - Webphoto)

No, signor Tati, proprio no. Ma parliamo d’altro. Del suo nuovo film, per esempio. Abbiamo sentito dire che Trafic ha per bersaglio le automobili.

Direi l’automatismo con tutte le conseguenze grottesche che ne derivano.

Lei non possiede una macchina?

Sì, una vecchia Peugeot che sta in garage da tempo immemorabile. Abbiamo fatto un patto io e lei: ignorarci. Pensa mio figlio Pierre a portarla in giro per la città.

Lei è un nemico dichiarato della modernità. Eppure non può ignorare che progresso significa anche benessere, cultura...

Non sono nemico della modernità, figuriamoci. Sono nemico dei programmatori della modernità, di quelli che ci proiettano nello spazio siderale o ci chiudono in mini-macchine o ci costringono in orribili vestiti o ci impongono la tal crema da barba. Guardi, mi va bene il Concorde, è uno splendido esempio della genialità dell’uomo; e mi va bene anche la struttura avveniristica di Brasilia, a suo modo è poetica. Quello che non mi va bene, quello che stona in tutto questo è il rapporto uomo-ambiente. Lo dico che l’uomo non è al passo dei tempi, non è ancora preparato a vivere il futuro che gli stanno facendo vivere. Dico che esiste una frattura tra quello che siamo realmente e quello che vogliono farci essere.

Monsieur Hulot s’incarica, dunque, di ricordarci questo?

Sì, proprio così. È un po’ la nostra coscienza tradita.

Ma in fondo questo Hulot non è un po’ aristocratico?

Un distaccato direi. Il distacco credo sia l’unica possibilità per porsi criticamente dinnanzi alla realtà.

Come nascono le sue gag?

Giorno per giorno: dall’osservazione delle piccole cose. Basta sapersi guardare attorno. Un giorno ho seguito un vecchio signore in uno di quei grattacieli che crescono ormai come funghi a Parigi. Il signore era davanti a un quadro luminoso, perplesso. Credo volesse premere il pulsante dell’ascensore. Naturalmente ha toccato tutti i tasti prima di quello buono, mettendo in moto un inarrestabile meccanismo di luci, suoni, di strani e misteriosi oggetti che spuntavano dalle pareti. Il caos, insomma. È bastato che un ometto si avvicinasse a questa meraviglia dell’elettronica per metterla in crisi. Ora in tutto questo trambusto il nostro signore continuava a conservare la sua aria distaccata e seria. Erano gli oggetti insomma ad apparire ridicoli e buffi, non l’uomo. Gli oggetti sono buffi quando non servono, o servono male, l’uomo.

Qual è il segreto per far ridere?

L’esempio che le ho appena fatto e che ho trasferito poi in Playtime: cioè raccontare con semplicità le cose semplici. Oggi la gente non ride più presa com’è negli ingranaggi di una esistenza che lentamente gli sta togliendo il gusto delle semplici cose, degli affetti.

E allora?

Allora l’uomo ha un solo mezzo per reagire. Interrompere il contatto tra progresso tecnico e umori spontanei; il risultato è di una ineffabile comicità. È liberando questa comicità l’uomo finisce per prevalere sulle cose.

Cosa la rattrista di più nella vita?

l bambini che non sanno ridere. Ha mai visto giocare un bambino? È cupo, triste, assente. E perché non dovrebbe esserlo? Gli hanno messo in mano mostruosi giocattoli fatti di plastiche sintetiche. Sono sicuro che se nel cortile di uno di quei casermoni della periferia di Parigi si alzasse un mattino, come d’incanto, un circo i ragazzi tornerebbero a ridere dinnanzi ai lazzi dei clown. È la scoperta delle cose genuine.

Nel cinema cosa la rattrista di più?

Ci sono tante cose che mi rattristano nel cinema. Per esempio il ricatto morale.

Ha qualche desiderio particolare?

Soltanto uno, per il momento. E non riguarda me. Vorrei poter facilitare il lavoro di Robert Bresson. Abbiamo un genio in casa, forse l’ultimo difensore della libertà artistica, e facciamo di tutto per dargli fastidio, per boicottarlo, per rendergli l’esistenza dura. Tutto questo è scandaloso; tutto questo è triste, molto triste.

Mario Foglietti (1936 – 2016) è stato critico, sceneggiatore e regista.